Più carceri da costruire, più carcere per tutti, più certezza della pena. È stato questo in estrema sintesi il passaggio dedicato al carcere all’interno del discorso in Parlamento del presidente del consiglio, Prof. Giuseppe Conte. Una ricetta generica, nota, costosa, che, se realizzata, produrrà gravi danni umani e sociali. Una ricetta che viene rinforzata dalle dichiarazioni del ministro di Giustizia Alfonso Bonafede il quale ha preannunciato il ridimensionamento del sistema delle misure alternative al carcere. Un grave errore concettuale che consiste nell’identificare la pena con il carcere. La sicurezza si costruisce favorendo il reinserimento sociale e non rinchiudendo i corpi in prigioni da cui un giorno o l’altro usciranno.
«Bisogna aver visto», affermava il grande giurista Pietro Calamandrei nell’invocare nell’immediato secondo dopoguerra una commissione di inchiesta sulle carceri italiane. Insieme a lui c’era l’azionista e radicale Ernesto Rossi. Il carcere va visto, va ascoltata la sofferenza che contiene. Vanno visti i volti e sentite le voci che lo abitano. Per conoscere un carcere bisogna starci ore, giorni. Solo chi lo ha visto sa quanto il carcere sia selettivo, quanto sia di classe.
La certezza della pena non ha nulla di scientifico. È uno slogan. Per i tanti, troppi detenuti reclusi nelle prigioni italiane la pena è più che certa, anzi certissima. Solo andando in carcere e parlando con i detenuti si potrà capire che il problema della giustizia penale non è quello della prescrizione (possiamo mai tenere in eterno una persona prigioniera del processo?) o della legittima difesa (norma già più volte modificata proprio dalla Lega) ma della durezza e selettività sociale della risposta repressiva. In carcere si incontrano persone che stanno espiando 20 di pena per un cumulo di piccoli furti. Si incontrano ragazzini stranieri tristi e soli ignari del motivo del loro imprigionamento. Nei loro confronti la pena è certissima, mentre la giustizia è ingiusta. Il 34% dei detenuti in Italia è dentro seppur presunto innocente. Per loro l’esito del processo è incerto ma la pena è di fatto già in corso.
Il carcere bisogna averlo visto, proprio come fece Henry Brubaker, nell’omonimo film. Lui era direttore di carcere e si finse detenuto per comprendere le tragiche e violente condizioni di vita nelle prigioni dell’Arkansas. Solo chi visita le carceri sa che in esse operano straordinari professionisti – direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi– grazie ai quali la vita penitenziaria è scandita nel pieno rispetto della dignità umana. Alla loro lealtà costituzionale dobbiamo molto. Hanno tenuto in piedi il sistema anche nei momenti bui.
Nel contratto M5S – Lega, allo scopo di assecondare qualche organizzazione sindacale autonoma, si è scritto che deve essere eliminata la sorveglianza dinamica, ossia la possibilità per i detenuti di trascorrere parti della giornata fuori dalla cella, ma pur sempre in galera. In questo modo i detenuti saranno trasformati in persone abbrutite, la violenza aumenterà, i reclusi torneranno a essere chiamati camosci e i poliziotti toneranno a fare i girachiavi. È questo il grande cambiamento di cui si parla?
Infine uno sguardo critico all’evocazione della solita ricetta edilizia. La costruzione di nuove carceri è una proposta non innovativa, ripetuta come un mantra, ma culturalmente, criminologicamente ed economicamente sbagliata. Ci sono pene ben più utili rispetto alla prigione. Ci sono reati che andrebbero depenalizzati. Ma non era il M5S a favore della legalizzazione della cannabis? Un carcere è un’opera pubblica. Costa. Costruire nuove galere significherà imporre nuove tasse ai cittadini.
PATRIZIO GONNELLA
Presidente Antigone
foto tratta da Pixabay