Un copione simile a quello andato in scena in Russia una settimana fa: a fare davvero la differenza in Egitto sarà l’affluenza alle urne. Con soli due candidati, di cui uno platealmente di facciata, il presidente al Sisi sarà rieletto con un plebiscito.
Ma sarà un plebiscito relativo, almeno questo dicono le immagini che ieri giungevano dal Cairo: i seggi praticamente vuoti davano poco spazio di manovra ai fotografi dei quotidiani pro-governativi che sono riusciti a portare a casa la giornata soltanto grazie alle danze improvvisate offerte da gruppetti di sostenitori del governo.
Lo dicono anche i dati degli ultimi anni: l’affluenza alle amministrative del 2015 è crollata sotto il 30%, gli stessi livelli dell’era Mubarak, e ben al di sotto del 51,85% delle presidenziali del 2012 quando a vincere fu l’islamista Morsi.
Sembrano trascorsi anni luce dall’entusiasmo e la voglia di partecipazione che la rivoluzione del 25 gennaio 2011 portò con sé, un vento che aveva spazzato via l’apatia di un popolo sotto dittatura prolungata. Oggi la speranza latita, con un regime fotocopia del precedente nelle modalità di governo: repressione, assenza di spazio di espressione , media imbavagliati, economia in mano all’élite militare, ricorso sempre più frequente alla pena di morte.
A sentire gli egiziani è addirittura peggiore: con una media di due sparizioni forzate al giorno e 60mila prigionieri politici stimati (una folla che ha richiesto la costruzione in fretta e furia di 16 nuovi carceri), la macchina della repressione opera in modo molto più sistematico.
Nel tritacarne attivisti e giornalisti, ma anche semplici cittadini: dalla madre che denuncia la sparizione della figlia alla cantante Sherine che ha osato scherzare sul Nilo. Fino al «laureato in tuk tuk», autista che in un video divenuto virale si lamentava dell’inflazione alle stelle e che ha preferito sparire da solo dalla circolazione.
Un paese a due velocità, dalla doppia faccia, plasticamente rappresentata dai progetti faraonici che al Sisi continua a lanciare, mentre quasi il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Le misure di austerity introdotte per ottenere un prestito da 12 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale hanno colpito solo le classi medie e basse: tagli ai sussidi, aumento delle tasse e dell’Iva, riduzione dei posti di lavoro pubblici, mentre il governo progetta mega città nuove di zecca (Neom in partnership con l’Arabia saudita e New Cairo, poco fuori la capitale).
Una crisi economica grave a cui prova a mettere le pezze Riyadh con finanziamenti consistenti che trasformano l’Egitto in Stato vassallo e che si accompagna all’altra spada di Damocle, lo stato di emergenza.
Da un anno, dal sanguinoso attentato contro le chiese copte nella domenica delle Palme, è stato esteso a tutto il paese. Le città sono semi blindate, procedono spedite demolizioni di case e confische di terre lungo la costa orientale e a Rafah e si inasprisce l’applicazione della liberticida legge anti-terrorismo, prima iniziativa di al Sisi dopo il golpe che ha nella pratica reso illegale qualsiasi forma di contestazione politica, sociale o economica.
Al Sisi non intende compiere l’«errore» di Mubarak che negli anni precedenti la sua caduta aveva minimamente aperto a opposizioni e stampa libera: meglio buttare sale sul terreno prima che sia seminato. E poi c’è la Penisola del Sinai, completamente isolata da quasi due mesi per l’operazione militare «Sinai 2018» contro il terrorismo di matrice islamista.
Non si entra e non si esce se non con speciali permessi, il cibo scarseggia e i pochi camion dell’esercito che distribuiscono farina, legumi, uova sono presi d’assalto da comunità affamate. Così un regime disfunzionale, preda delle proprie paranoie, governa un paese frustrato e senza speranza. Non andare a votare è l’unico schiaffo che il popolo egiziano può oggi permettersi.
CHIARA CRUCIATI
foto tratta da Pixabay