Da più parti emerge una richiesta di approfondimento sull’astensionismo e sulla possibilità di sommare la quota ormai molto rilevante di “non voto” alle elezioni politiche con la somma dei partiti cosiddetti “populisti”, gonfiati dal”presumibile” voto di protesta (quanto ci sia poi di voto di scambio in quel voto di protesta, per via del tono indefinitamente “promissorio” della campagna elettorale rimane materia da esplorare per sociologi e analisti).
Intanto sarà consentita una prima considerazione che gli ultimi avvenimenti di questi giorni ci inducono a esprimere circa l’utilizzo del senso della protesta contenuta in quel tipo di voto.
Assistiamo, infatti, al palesarsi, neppure troppo sorprendente, di una sorta di “doroteismo rampante”: altro che populismo di protesta!
La vecchia DC sembra proprio ritornata in campo, del resto la politica nelle istituzioni ha le sue regole ed è difficile sovvertirle.
Andiamo però per ordine e proviamo comunque a sviluppare un minimo di analisi intorno al fenomeno della disaffezione dalle urne.
L’affluenza elettorale è in calo ormai da anni: analizzando la serie storica si nota come nei primi decenni della Repubblica il livello di astensione fosse molto contenuto (nel 1953 si stabilì il record d’affluenza: 93,84%, circa 20 punti sopra al livello del 2018), e che solo dal 1983 la partecipazione è scesa sotto il 90%; in seguito la tendenza negativa si è acuita, con soglie dell’86-87% negli anni di Tangentopoli e con cifre ancora più basse nel ventennio berlusconiano (fatta eccezione per la consultazione del 2006, caratterizzata dall’effimera vittoria dell’Unione di Romano Prodi per una manciata di voti), fino ad arrivare al 75,2% (astenuti pari al 24,8% della popolazione) alle elezioni politiche 2013.
Alle elezioni europee del 2014 le cose sono andate ancora peggio: l’astensione in Italia si è attestata al 44,4%: non ha votato il 39,2% degli uomini e il 49% delle donne, con una maggiore incidenza al sud e nelle isole (come nelle politiche del 2013), e addirittura il 77,2% degli astenuti totali ebbe a dichiarare di non potersi o non volersi collocare politicamente (fonte: Ipsos Public Affairs).
Da un’analisi dell’ultima consultazione comunitaria- appunto quella del 2014 – condotta a cura del Parlamento europeo , si evince che il tasso di astensione nei Paesi membri è stato in media del 57,46%. I non votanti sono stati raggruppati in astenuti convinti (24%), che sono coloro che non votano mai (in aumento di due punti dalle precedenti elezioni); astenuti riflessivi (31%), che hanno deciso di non votare nei mesi o nelle settimane precedenti (stabili rispetto al passato); astenuti impulsivi (34%), che hanno deciso di astenersi nei giorni precedenti il voto o addirittura il giorno stesso delle elezioni (in crescita di due punti); e infine astenuti indeterminati (11%), che non sanno quando hanno deciso di non andare a votare (in calo del 2%). Fra i motivi dell’astensione i principali sono stati la “mancanza di fiducia nella politica in generale” (23%), “il fatto di non essere interessati alla politica” (19%), e che “votare non ha conseguenze/non cambia nulla” (14%).
Le elezioni regionali e amministrative svoltesi nel 2015 hanno fatto poi registrare punte molto basse di partecipazione al voto: in particolare in Emilia Romagna dove la presenza alle urne ha toccato il fondo del 37%.
In quell’occasione,il 24 aprile 2015 il sociologo Fausto Anderlini , ha presentato a Bologna un sondaggio politico sulla città condotto da Delos. Da culla della partecipazione e del buon governo Bologna si avvicina a grandi passi all’astensionismo ideologico attraverso l’analisi di un campione di 600 casi stratificato per sesso, età e zona di residenza, emerge che l’orientamento di voto a Bologna consegna il 72,3% all’astensione. Anderlini spiega che “ormai esiste un vero e proprio partito dell’astensione anche a Bologna dove pure l’elettorato continua a considerarsi di sinistra. Si configura dunque una forma di ‘astensione ideologica’ perché questo dato si colloca in un contesto in cui viene ancora, nonostante tutto, rivendicata un’appartenenza politica sebbene non più partitica”
Nel testo elaborato per l’occasione si legge: “Stupisce il modo esplicito col quale l’astensionismo si dichiara adducendo moventi politici. Sino a poco fa tale comportamento era nascosto nella reticenza. Oggi si palesa quasi come una nuova coscienza di sé. L’astensionismo sembra essere diventata una forma di orgogliosa consapevolezza”.
La partecipazione al voto ha poi fatto registrare un aumento nell’occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (50.773.284 aventi diritto con 32.852.112 voti validi e di conseguenza 17.921.172 suffragi non espressi tra diserzione diretta, schede bianche e schede nulle).
Le recentissime elezioni legislative generali svoltesi il 4 marzo di quest’anno hanno segnato un aumento nella presenza alle urne rispetto alle occasioni appena citate ma inferiore comunque a quella fatta registrare nel 2013 in analoga occasione di voto: 46.505.499 aventi diritto con 32.825.399 voti validi , più o meno come nel referendum: quindi con 13.680.100 mancate espressioni di voto complessive).
Un esercito di circa 14 milioni di cittadini/e aventi diritto che non esprimono comunque la propria opinione politica rappresentano sicuramente un fenomeno di grande portata da analizzare assai attentamente e non da snobbare superficialmente nella convinzione che intanto i seggi da spartire ci sono comunque.
Per correttezza d’esposizione è necessario anche far notare come si verifichi una difformità negli aventi diritto se ci si riferisce all’Italia (esclusa la Valle d’Aosta). Infatti nelle elezioni politiche i residenti all’estero non figurano nel totale degli iscritti, avendo facoltà di votare appunto nelle sedi di residenza. In questo caso quindi la platea dei possibili votanti è più ristretta di quella delle altre occasioni, europee, amministrative, referendarie (da ricordare ancora che nell’occasione del voto per il Parlamento Europeo per elettrici ed elettori residenti in paesi comunitari è possibile esprimere il voto nei consolati).
Dopo decenni nel corso dei quali opinionisti e politologi avevano snobbato il fenomeno, definendolo al massimo come “fattore fisiologico di allineamento al funzionamento delle democrazie occidentali” adesso sembra che si riscopra l’astensionismo come fattore determinante negli equilibri politici.
Qualcuno arditamente, come si è già fatto notare, cerca addirittura di assommare le astensioni con i voti percentuale di voti espressi a favore de M5S , arrivando a calcolare come si possa parlare di un 60% dell’elettorato italiano favorevole alla cosiddetta “antipolitica”.
Nulla di più sbagliato e non soltanto per via del già citato evidente “doroteismo” che sembra pervadere la nuova guardia del M5S.
La tesi che s’intende sostenere in quest’occasione suffragata anche dai dati emersi dalle analisi già sopra riportate, l’astensionismo deve essere considerato come una vera e propria “scelta politica” per milioni di elettrici ed elettori, e tale deve essere considerata senza che alcuno possa essere autorizzato ad annetterselo: come aveva tentato, invece, i radicali negli anni’80 e ’90 quando presentavano la lista e, contemporaneamente (e paradossalmente) invitavano alla crescita del “non voto” per cercare, nel dopo elezioni, di considerarne la crescita come un loro esclusivo successo.
In realtà l’analisi del “ non voto” ha cambiato di segno nel corso degli ultimi anni.
Nel “caso italiano” quest’analisi è da sviluppare collegandosi a quella della trasformazione del sistema dei partiti, con il passaggio dal partito di massa a quello “pigliatutti”, poi a quello “elettorale personale” se non, addirittura, al partito –azienda, fino ai casi più direttamente riconducibili a un’esasperata personalizzazione della politica. Personalizzazione arrivata al punto di inserire il nome del leader nello stesso simbolo elettorale.
In questo modo è avvenuta una sorta di “scongelamento” nel rapporto diretto tra i partiti e le fratture sociali individuate, a suo tempo, da Lipset e Rokkan, con un indebolimento della fedeltà ai partiti e una crescita della cosiddetta “volatilità elettorale” al punto che, in questa modificazione di rapporto con la partecipazione elettorale, settori importanti di “elettorato razionale” hanno accusato un vuoto di rappresentanza che ha condotto, alla fine, alla diserzione del voto.
Un “elettorato razionale” che era stato, in passato, portato a scegliere soltanto in relazione alla possibilità di massimizzazione dei propri desideri (non solo materiali, ma anche ideali e culturali) quindi esprimendo un voto che teneva assieme il senso d’appartenenza e l’opinione specifica.
I fattori in campo, dunque, nella costruzione di questo processo di crescita dell’astensionismo ( ricordiamo sempre che si tratta comunque di un fenomeno anche legato al tipo di competizione elettorale di riferimento) appaiono essere almeno tre:
- quello derivante dall’analisi della vecchia scuola statunitense dell’astensione come sorta di volontà d’espressione di un mantenimento dello “status quo” (le cose vanno bene così, perché dovrei disturbarmi per andare a votare?);
- l’altro, di origine più recente e più propriamente europea, dell’espressione inversa a quella precedente di una protesta indiscriminata rivolta al “sistema”. Una protesta che oltrepassa, nell’insoddisfazione, il pur rutilante populismo imperante in tutta Europa e che ha trovato sue significative espressioni in Italia, sia al governo, sia all’opposizione: tra “rottamazioni” e “vaffa” che comunque lasciano il segno sulla credibilità complessiva del sistema e non possono essere assorbite con grande facilità;
- l’ultimo fattore, derivante dallo specifico della situazione italiana, dell’assenza di rappresentatività politica sul piano complessivo da parte di soggetti tendenti a un’interpretazione complessiva dei fenomeni politici e sociali anche in forma ideale e di proposta di mediazione politica. Fattore determinante per quell’“elettorato razionale” che non trova più soggetti organizzati capaci di esprimere interesse generale e, di conseguenza, abbandona l’idea di sentirsi rappresentato da un sistema composto di elementi troppo distanti dalla propria visione della politica. E’ la sinistra, proprio per fornire una valutazione più ravvicinata del fenomeno a soffrirne maggiormente in ragione di un’assenza di “identità” che – appunto – per i soggetti della “gauche” aveva rappresentato un elemento decisivo per l’appartenenza politica e per la conseguente espressione di voto.
Mancano all’appello insomma una buona quota di quello che in passato era stato indicato come “ voto di appartenenza” e anche una fetta importante del voto d’opinione.
Va sottolineato ancora come nessuno possa pretendere (al di là dei facili propagandismi) di proporsi come “argine” alla crescita della disaffezione politica ed elettorale, essendo ormai questa un fenomeno assolutamente strutturato al sistema sia pure numericamente oscillante d’occasione in occasione.
Neppure colmerà il vuoto l’ossessivo uso dei social network e, più in generale, del web : si tratta, infatti, di strumenti dedicati agli ultrà, ai già super convinti, ai tifosi che li useranno per insultarsi e screditare i diversi candidati avversari, non di più.
D’altro canto emergono, a questo proposito, proprio dalla cronaca elementi che suscitano al proposito una vera e propria inquietudine.
La complessità sociale richiede l’elaborazione di un’articolazione di ideazione politica riservata insieme al progetto come al programma.
Il problema di cui nessuno vuole parlare, politici in primis, è l’altra faccia della medaglia: “Il nostro non è più un regime democratico, cioè non esistono più istituzioni legittimate dal consenso popolare. Le élite si riproducono in luoghi che non sono più riconosciuti dalle persone normali. La politica dall’alto riduce gli spazi di democrazia auto-legittimandosi e auto-fondandosi”.
Si pensi, infine, al fatto che si è cambiata legge elettorale per 4 volte in 25 anni (in un’occasione addirittura la legge elettorale votata a colpi di fiducia al Governo non è mai stata utilizzata e che in 2 occasioni la Corte Costituzionale ha dichiarato il testo illegittimo nelle sue parti decisive e la stessa formula usata il 4 marzo sarà sottoposta ad analogo vaglio con probabilità consistenti di veder bocciate almeno alcune parti di quel testo per avere un’idea della progressiva caduta di credibilità del sistema a causa di un utilizzo sconsiderato dell’autonomia del politico.
Un discorso quello sull’astensionismo e la cosiddetta antipolitica da riprendere in profondità anche da parte di quanti hanno pensato di cimentarsi in chiave coerentemente alternativa con l’arena elettorale.
Sarebbe fondamentale, infatti, recuperare in pieno l’identità costituzionale fondata sula centralità del Parlamento: un’identità costituzionale fortemente scossa, nel frattempo, dall’utilizzo di un’impropria “Costituzione Materiale” fondata su di un improprio intreccio tra Governabilità e Presidenzialismo che si è cercato di suffragare con la modifica costituzionale del 2016 fortunatamente respinta a grande maggioranza dal voto popolare.
FRANCO ASTENGO
22 marzo 2018
foto tratta da Pixabay