Il ministro Minniti ha torto. Il fascismo non è morto per sempre. Non siamo nemmeno sicuri che noi stessi si muoia per sempre, abbiamo quel piccolo dubbio che ci fa essere certi del nostro essere magari agnostici come il sottoscritto o atei come altri proprio perché, per l’appunto, il dubbio è piccolo, ma esiste. Quindi la certezza assoluta non esiste nel trascendente e nemmeno nell’immanente.
Figuriamoci se è possibile affermare che un fenomeno politico e sociale durato venti e più anni in Italia, che ha prodotto simili esperimenti autoritari in tanti altri paesi del mondo, che tutt’oggi ha seguaci che si richiamano alla dittatura mussoliniana per vie traverse, più o meno modernamente, più o meno apertamente, possa essere definito completamente defunto, privo di qualunque sprazzo di energia e dinamismo.
Certo, se ci si riferisce ad una immagine stereotipata e tutta inconografica del fascismo, allora possiamo affermare che certi rituali sono passati, che solo pochi fanatici esibizionisti e un po’ tocchi si vestirebbero con i pantaloni alla zuava, la camicia nera e il fez.
Ma di gente che si arma di coltelli e bastoni, che si fa tatuare una svastica o una croce celtica su un braccio, che inneggia ai periodi più terribili della storia d’Italia e d’Europa non sono ancora piene le vie e le piazze dello Stivale, ma cresce una ondata di intolleranza e di odio verso tutto ciò che viene dipinto come una “minaccia” nei confronti del popolo italiano, delle sue tradizioni e della sua economia.
Del resto, basta scorrere la storia d’Italia, quella recente, quella repubblicana per accorgersi di come tante volte il fascismo si sia ripresentato sulla soglia di casa per tentare di tornare alla guida del Paese con colpi di stato, stragi nelle stazioni e sui treni…
La memoria corta è un dilemma italiano, soprattutto se si tratta di fare i conti con la coscienza civile di un intero popolo.
Poi, ormai è un dato di fatto che la crisi economica ha fomentato il disordine sociale. Ciò che si sta invece producendo, come novità esclusiva, sotto i nostri occhi in queste settimane è una evoluzione, un salto di qualità negativo del fastidio antisociale nei confronti del “diverso” spostato tutto su un piano propriamente razzista e segnatamente contro i “neri”.
I mezzi di comunicazione di massa hanno non solo capacità intrinseca a creare e plasmare la pubblica opinione in un comune sentire di massa, ma riescono ad essere anche involontariamente gli unici portatori di elementi di un improprio approfondimento “culturale” in merito.
Al di fuori della televisione sembra non esservi spazio per l’indagine storica, per una definizione dell’attualità dei fatti meglio circostanziata magari con la lettura di testi e articoli. L’inchiesta singola e anche collettiva è espulsa dal metodo di formazione della conoscenza e per questo ci si affida alla superficialità dei titoli urlati, all’apparenza che viene così prepotentemente tirata da ogni parte per diventare evidenza.
Tutto questo è già fascismo, è un modo sbrigativo di rapportarsi con le vicende umane e, pertanto, con gli esseri umani stessi.
La rabbia sociale non diventa lotta sociale ma viene utilizzata per alimentare le forme di odio che conosciamo e per mettere il povero contro il povero, lo sfruttato contro un altro sfruttato.
Affermare, dunque, che il fascismo è morto è altamente opinabile ed al massimo è una enunciazione che trova riscontro soltanto nel proporre una tesi storica basata sul dato di fatto che un certo tipo di fascismo non può più riproporsi esteticamente parlando. Ma la quinta essenza dell’autoritarismo, della prevaricazione e del totalitarismo, che è caratteristica prima del movimento fondato a Milano dopo la Prima guerra mondiale, quella è una forma della politica, una forma che può essere presa ogni qual volta si creano delle caratteristiche tali da mettere in secondo piano la democrazia.
Tutto ciò sta avvenendo in Italia. Forse Macerata ha scosso gli animi. Forse qualcuno in più, rispetto ai mesi precedenti, si è accorto del pericolo che corre l’intero Paese. Ma è ancora troppo bassa la percentuale di chi vuole mettere un argine a tutto ciò: bisogna ricostruire una sinistra di alternativa degna di questo nome e unire lotta allo sfruttamento sul lavoro alla lotta contro la deprivazione di qualunque spazio di partecipazione.
La sfida di Potere al Popolo! è soprattutto questa sfida: essere quell’ossigeno che ai lavoratori, ai disoccupati, ai precari e a tutti gli sfruttati manca da molto, da troppo tempo.
MARCO SFERINI
13 febbraio 2018
foto tratta da Wikimedia Commons