I piccoli segnali di ripresa economica e la modica crescita dei consumi giustificano le grandi fughe nella fabbrica delle illusioni che euforica ha riaperto i battenti. Lontano è il ricordo dei fallimenti, delle chiusure delle attività, dei tracolli bancari, delle speculazioni sul debito. E ritorna la specialità più rinomata della seconda repubblica: la chiacchiera infinita sull’abbattimento delle tasse.
La fine dell’emergenza nei conti archivia il tempo triste della sorveglianza punitiva e impone il richiamo in servizio permanente dei venditori di miracoli. E quando riprendono a ballare i campioni delle favole a lieto fine, ricomincia la narrazione senza residui di memoria propria di Berlusconi.
Il maggiore commediante della non-politica vede scalpitare i suoi mediocri imitatori che cercano di rimpiazzarlo nel palcoscenico della parolaia repubblica in declino.
Ma la loro velleità di uscire dal ruolo di semplici comparse è bruscamente interrotta. Il vaniloquio di Scalfari, le palinodie dell’Economist unanimi sentenziano: bando alle mezze figure, è proprio il divo di Arcore che deve salire di nuovo sul palco. Non serve alla nobile causa qualche suo discendente già in affanno ma in scena deve comparire il salvatore del ’94, lui in persona. Amnistiato per i peccatucci della carne e graziato per i bilanci aziendali a dir poco creativi, l’ex Cavaliere si trova ricoperto di gloria. Ottiene i galloni su richiesta dei nemici di una volta.
Acclamato come capo, perché scovato con un insospettato elemento epico, deve ingaggiare la nuova guerra campale contro il minaccioso grillismo.
Questo clima di resurrezione del cavaliere immortale rende di pietra le ali di Renzi che, come un Berlusconi di seconda mano, cerca di volare in un panorama di facili speranze per condurre le sue prove di seduzione su un pubblico poco addestrato alla critica sottile.
Tra gli innumerevoli spacciatori di immagini ingannevoli che affollano la scena, avverte che il suo spensierato repertorio di banalità è tornato di moda. Il guaio è però che il giovincello di Rignano, che pure è sempre stato nient’altro che un piccolo venditore di parole nella non-politica ridotta a gioco di fantasia poco creativa, ha smarrito la porzione magica della credibilità.
Il suo racconto delle cose degli anni del potere assoluto, le sue vanterie sulle mirabili realizzazioni non solo non seducono il pubblico ma irritano lo spettatore come il delirio di uno sfacciato. Il guaio irrimediabile per Renzi è che qualsiasi parola dica con ogni mezzo, vecchio o nuovo di comunicazione non muta l’atmosfera cupa che lo perseguita. Promette bonus, annuncia tagli, fa firmare il rinnovo dei contratti, dà gratis la visione della tv, accenna a fantasticherie sul salario (ricicla «una stupidaggine come il salario minimo fissato per legge», sentenzia Marx).
Ma tutte le sue mirabili costruzioni linguistiche sono decodificate come falsità, bugie, giri inutili di frasi insensate.
L’opinione del pubblico sul conto di Renzi si è ormai ossificata in certezze quasi assolute. E nessuna trovata provocatoria riesce a invertire la considerazione di perniciosa nullità che lo condanna in ogni suo gesto. Non gli giova la schiera di giovanotti ambiziosi e presuntuosi che per professione riveriscono il capo, non l’aiuta la fuga precipitosa dal governatorato del Friuli. Anche gli esercizi scolastici di Gentiloni a palazzo Chigi producono roba troppo fiacca e i risultati del governo calmo non sono tali da invertire la rotta cadente.
Ora che, in vista del voto di marzo, l’evoluzione nei rapporti di forza si è molto ingarbugliata e l’urna annuncia tempesta, la puntura di cimice della rottamazione è finita. Ad essa subentra una prufonda melancolia per un disastro incombente che suggerisce al donchisciottesco capo in ritirata il reclutamento di vecchi ufficiali di riserva, il prestito di simboli per soccorrere alleati fragili e incapaci di raccogliere le firme.
La politica italiana ripete di nuovo, dopo un quarto di secolo, la stessa stupidaggine di riconsegnare le chiavi del potere a Berlusconi.
Questa patetica autocastrazione si deve alla pazzia della non-élite fiorentina che ha scritto una legge elettorale folle (dinanzi al venti per cento che va alle destre radicali di Salvini e Fratelli d’Italia), una alchimia bizzarra escogitata solo per consentire al capo in disgrazia di diventare martire per forza.
Nell’attesa del crollo sicuro della potenza fittizia del Pd, tra gli elettori c’è chi pare disposto a tagliarsi una mano piuttosto che deporre una scheda nell’urna per regalare il voto utile a un partito che evapora in fretta per assoluta inconsistenza.
Dinanzi a un Berlusconi che reclama il corpo volenteroso di Renzi per sconfiggere le insidie del tempo e a un Renzi che si propone con la testa debole di Berlusconi per recuperare una capacità di seduzione, si avverte salire un grido incalzante: «Que le diable les emporte!».
MICHELE PROSPERO
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