La riscoperta dell’antifascismo, da parte di alcune forze politiche e di moltissimi cittadini, solamente quando è il neofascismo a rialzare la testa e a farsi prepotentemente sentire con azioni intimidatorie, è un elemento che non ha connotazioni negative: anzi, ci dice che quando dalla normale convivenza civile, fondata sui valori costituzionali e repubblicani, si esce con un tracimare di frasi revisioniste accompagnate da comportamenti che vanno a ledere i più elementari diritti di uguaglianza, solidarietà alla base del patto civile e sociale esistente, esiste una coscienza che si riscopre tale, che emerge e che, quindi, si pone ad argine in difesa della democrazia propriamente detta.
Eppure non è senza senso la domanda che qualcuno si è posto sui grandi quotidiani a tiratura nazionale ed anche sulle reti sociali internettiane: “Come mai ci si riscopre antifascisti solamente quando i neofascisti si mostrano apertamente come tali e, ringalluzziti da qualche vento a loro favorevole (anche elettoralmente parlando), osano mettersi in contrapposizione alla società civile?”.
Quesito legittimo. Perché potrebbe essere ricondotto a molti altri aspetti della nostra vita: dalla esistente lotta di classe che la classe non sa di poter interpretare sui posti di lavoro, nella scuola, nella quotidianità dell’oggi, fino alla riscoperta dei valori costituzionali che, appena un anno fa, sono stati difesi dal popolo italiano con un 59% di voti contrari alla “riforma” di Renzi che voleva stravolgere la Carta del 1948.
La domanda, dunque, abbraccia molto di più della pure importante questione antifascista: investe proprio un modo di intendere la politica e il rapporto che essa ha con il vivere civile e viceversa.
Difficile poter dare una risposta semplice o unica ad un enigma di questa natura.
Le origini vanno ricercate nella consuetudine, nell’abitudine a condurre una vita regolata da un modernismo fatto di “incontrovertibilità” date per acquisite: paletti insuperabili grazie alla moderna organizzazione sovrastatale, alla cosiddetta “protezione europea” che deriva dall’osservazione reciproca tra le nazioni in materia di vigilanza democratica. Le istituzioni continentali, come il Parlamento di Strasburgo, la Commissione europea, sarebbero una prima garanzia qualora uno degli Stati membri dell’Unione Europea deviasse dalla carta costituente della medesima, dalle regole tanto morali quanto politico-sociali e, ultimo ma forse primo dei fattori, dall’assetto economico complessivo di un “gigante” tutto monetario e molto poco popolare.
Quindi, la globalizzazione delle idee, delle merci, degli interessi dovrebbe essere, a detta di molti liberal-liberisti moderni, un meccanismo di salvaguardia dal risorgere di nuove tentazioni autoritarie con agganci ad un nostalgismo per il ventennio fascista o per il Terzo Reich.
Anche le forze politiche schierate a destra affermano di non approvare le azioni squadristiche di certi settori del neofascismo italiano: non ne cercano nemmeno i consensi, i voti. Così affermano per provare a darsi una immagine di rispettabilità, per continuare ad essere accolte nell’alveo democratico.
Va detto che, a partire dal 1946, nel consesso democratico, ma fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” (formato dai partiti antifascisti che avevano scritto la Costituzione della nuova Repubblica Italiana), comprendeva anche il Movimento Sociale Italiano di cui fu presidente anche un criminale di guerra come il maresciallo Graziani, le cui gesta in Libia sono ben note, comandante del raccogliticcio ricostituito esercito della fantoccia Repubblica di Salò.
E va detto che in quel contesto il già citato “argine democratico e antifascista” in difesa del neonato e rinato Stato italiano era l’erede diretto della Resistenza partigiana formata da uno spettro culturale ampio, differente nella sua espressione culturale ma unito dalla determinante volontà di evitare qualunque ritorno al passato appena conclusosi sotto le macerie morali e materiali della nazione.
Oggi, a settanta anni e più di distanza, il fronte antifascista si sta ricomponendo proprio in virtù degli attacchi subìti dalla Costituzione (non dalla classica destra ma dalle forze del cosiddetto “centrosinistra” che siede tutt’oggi al governo del Paese) e della crescita di una espressione rinnovata di intolleranza, di discriminazione, di odio antisociale che tenta di soffocare l’egualitarismo solidale alla base della convivenza democratica e, quindi, alla base anche dell’antifascismo.
Un collante di odio che è fomentato dalle forze politiche che hanno come obiettivo la destabilizzazione delle istituzioni attraverso la diffusione di stereotipi di nemici creati ad arte per far venire meno la consapevolezza dei problemi sociali che attraversano la vita di ciascuno e di tutti coloro che vivono (o sopravvivono) in una crisi economica allevata nella destrutturazione dei diritti sociali.
Il neofascismo, dunque, ha radici mentali ideologicamente reperibili anche in un recente passato ma ha i piedi piantati per terra nelle problematiche dell’oggi dove il povero viene mostrato come nemico per lo stesso povero, lo straniero viene mostrato come pericolo per l’autoctono e la diversità passa dall’essere valore ad essere stigma.
Dunque, la riscoperta dell’antifascismo è un valore perché peggio sarebbe se il torpore fosse permanente e, oltre ad interessare la normale conduzione di sopravvivenza (o vita) quotidiana, si estendesse anche e soprattutto ai momenti in cui il rigurgito nero è maggiore, evidente ma non percepibile da una coscienza, per l’appunto, anestetizzata da un comune senso di una normalità apparente.
La memoria non è sufficiente a garantire l’emersione di una nuova coscienza antifascista: è certamente importante, porta con sé una necessità imprescindibile nel conservare intatti gli episodi che si concatenano e danno la dimostrazione di ciò che non deve ripetersi. Ma più importante della conservazione della memoria è lo studio della storia, dei dati di fatto che si devono accompagnare al racconto delle singolarità avvenute: alle narrazioni dei pochi partigiani ancora viventi, dei deportati nei campi di sterminio nazisti deve accompagnarsi una conoscenza di base non superficiale ma dettagliata circa gli avvenimenti del “secolo breve”.
Sono proprio i fatti che sono sempre messi in discussione da coloro che non si rassegnano davanti alla verità e che tentano di minare non tanto la memoria ma la base su cui essa poggia: la storicità, quindi il racconto unito all’analisi provabile con documenti, fotografie, filmati e testimonianze dirette che sono ciò che è successo e non ciò che suppone sia accaduto.
MARCO SFERINI
10 dicembre 2017