In una fredda domenica di un autunno, che è già passato senza essere stato mai “caldo” (politicamente e socialmente parlando), Rifondazione Comunista da un lato e i tre soggetti costituenti il nuovo partito che dovrebbe essere guidato dall’attuale Presidente del Senato della Repubblica Pietro Grasso svolgeranno le loro rispettive assemblee, di grado e tenore differente, per decidere il da farsi in vista della tornata elettorale del prossimo marzo.
Sarà dunque, quella di oggi, una giornata dirimente per capire, per interpretare, per definire meglio il quadro politico che si delinea in quella che viene impropriamente chiamata “la sinistra a sinistra del PD”.
Impropriamente perché dovremmo, almeno noi comunisti, smetterla di considerarci a sinistra di qualcosa che di sinistra non è e che, quindi, non è la costante indicativa di nulla per quanto riguarda una gradazione delle qualità ideali e programmatiche di un partito o di un movimento o anche di una alleanza “di sinistra”.
La geopolitica italiana va ridisegnata e va messa in discussione la declinazione dell’ausiliario verbale composto in una locuzione precisa: “essere di sinistra”.
Non “sembrare di sinistra”, ma esserlo. Il che vuol dire una semplice cosa, anzitutto: se tutto ciò, o gran parte del tutto in questione, che abbiamo elaborato in questi decenni, dalle alleanze ai tentativi di influenzare le politiche liberali prima e liberiste poi con elementi di riforma “sociale” non è servito a migliorare le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, se non ha impedito che grandi ondate di privatizzazioni e di precarietà avanzassero impetuosamente, e se non ha nemmeno influito sul comune sentire popolare tanto da aprire proprio a sinistra una breccia più grande di quella di Porta Pia per farvi penetrare il grillismo, ebbene se tutto ciò ci ha condotto alla dissoluzione della sinistra di alternativa (e genericamente, propriamente detta), allora significa che ha ottenuto un solo risultato: il logoramento di noi stessi, della sinistra comunista, della sinistra cosiddetta “radicale”.
Di quella sinistra che, quando aveva ancora un certo mordente sui ceti di suo naturale riferimento, proprio le forze socialdemocratiche di governo hanno arginato colpevolizzandole, rendendole subalterne al dettame del “voto utile”, con una propaganda che ha ridimensionato le lotte sociali anche ispirate dal settore di rappresentanza politica perché poteva ad un certo punto controvertire determinati rapporti di forza.
Nessuno è innocente in questo pasticciaccio: dal sindacato ai partiti, dai corpi intermedi culturali a quelli sociali. La generale collaborazione, con differenti livelli di responsabilità, ha distrutto l’empatia che esisteva tra il mondo del lavoro e del disagio sociale e i comunisti; ma ha annichilito anche la connessione di portata storica – perché proprio derivava da una storia post-bellica innegabile – tra il concetto di uguaglianza sociale e quello di espressione della medesima nell’uguaglianza del voto, della rappresentanza istituzionale delegata.
L’opzione socialdemocratica oggi rinasce e si dà come programma la rimodulazione di un nuovo ambito di centrosinistra al di là del PD. Non esclude dialoghi parlamentari con il partito di Renzi, a patto che Renzi non sia più al comando del partito. Il che sarebbe come chiedere al capitano di una nave a tre alberi di lasciare il comando non ad un sottufficiale ma ad un marinaio semplice in combutta con la scialuppa che segue la nave e che vuole prenderne il controllo o comunque influenzarne la rotta.
Questa idea di rivalsa politica è l’unico collante che unisce le parti di minoranza del PD che dal PD si sono staccate in tempi diversi, che hanno creato la suggestione della “scissione” demolitrice del renzismo e che, invece, si sono trovati a distruggere ennesimamente ciò che a sinistra si stava creando dal basso e forse anche dal nuovo per dare una possibilità ad un programma antiliberista (almeno quello…, se non proprio anticapitalista) di esercitare il diritto ad essere il quarto incomodo tra tre grandi registi di un protezionismo economico che non mette in discussione nulla del sistema che ci conduce all’impoverimento di massa.
Invece di nascere da una scissione di una forza più a sinistra di loro, la futura lista a guida Grasso nasce per evitare l’atomizzazione di tre fallimenti: Sinistra Italiana, erede di SEL, non ha conquistato l’egemonia nel campo socialista di sinistra, tanto che oggi va al traino di MDP; Possibile si accoda mestamente senza aver realizzato quel “manifesto per la Repubblica” che era stato tanto declamato come rilancio di un programma civico più che di sinistra; ed infine Articolo 1 – MDP che fallisce l’obiettivo di radunare attorno a sé la maggioranza del popolo piddino ma che riesce almeno ad egemonizzare il cammino della costituenda forza politica.
Vince, dunque, la parte socialdemocratica su quella laica di Civati e su quella “più di sinistra” di derivazione vendoliana.
Dalla sua, il tripartito socialdemocratico ha una certa garanzia di oltrepassare quel 3% imposto dalla legge elettorale di Rosato. E questo è il motivo vero della fondazione cui oggi assisteremo. I corollari sono poi tutti encomi reciproci per una “impresa” quasi cavalleresca: arrivano i prodi (ops… non era voluta questa assonanza con il recente passato ulivista – unionista) che vogliono salvare la bella. La sinistra.
La sinistra salvata da chi ha distrutto la sinistra in trent’anni di abiure, di equiparazioni di valori e controvalori incostituzionali, di sdoganamento di parole impronunciabili un tempo per un comunista, anche forse per un semplice socialista: privato, privatizzazione, concertazione (al posto di contrattazione), lavoro a termine, precarietà, mobilità sostenibile e, infine, il più ridondante di tutti… “governabilità”.
In nome della governabilità sono stati commessi i peggiori atti di declassamento del ruolo del progressismo italiano.
Dall’altra parte, Rifondazione Comunista rimane da sola nella scelta leninista del “Che fare?”.
A mio avviso esistono solo tre opzioni: 1) aprire un dialogo con la “lista Grasso” per concordare la formazione di una unica lista di sinistra “alla sinistra del PD”; 2) continuare nel percorso riaperto con l’assemblea al Teatro Italia, dopo la fine indecorosa del Brancaccio; 3) presentarsi come Rifondazione Comunista, col proprio simbolo, abdicando alla costruzione di qualcosa di più ampio dei confini del Partito.
Non prendo in considerazione, per formazione e cultura personale, l’ipotesi del “saltare un giro”: è impolitica, nega un ruolo che si può avere, che si deve provare ad avere e ottenere con il consenso popolare. Per questo va esclusa a priori.
Siamo chiamati ad una scelta e mi sembra di poter dire che, volenti o nolenti, la scelta l’hanno fatta prima i fatti rispetto alle nostre singole volontà. E i fatti sono incontrovertibili in questo caso: chi pensa di poter aprire un dialogo con la “lista Grasso” e recuperare un rapporto perso, non solo fa un cattivo servizio a Rifondazione Comunista diminuendone il carattere alternativo che oggi ha e conserva, ma ripete l’errore già sperimentato del cedere al compromesso in nome di una feticismo unitario che, proprio perché feticcio, non può avere valore vero ma solo apparente.
Comprendo bene il timore di queste compagne e questi compagni: essi si domandano che tipo di messaggio arriverà anche al nostro popolo, alla cosiddetta “gente comune” che è avulsa dai tecnicismi, dalle differenze che possono essere vissute come spigolosità e particolarismi inutili; sottigliezze di cui liberarsi per realizzare una apparenza che sia anche sostanza: la sinistra unita.
La “domanda di unità” sarebbe una leva importante nel consegnare un messaggio di fiducia ad un consenso sociale, politico ed elettorale smarrito da troppo tempo e che è in costante aumento con il fenomeno dell’astensionismo dilagante.
Ma l’unità con fini elettoralistici l’abbiamo già sperimentata e si è schiantata al suolo il giorno dopo il voto perché aveva solo un obiettivo: entrare in Parlamento e non costruire un progetto politico-sociale di ampio respiro, di lunghissima lena.
Per questo, voi potrete anche fare appello a Grasso perché chiami a sé Rifondazione Comunista: non per apparire “più di sinistra”, non seguendo dunque la logica renziana (sempre negata anzitempo) di costruzione di una coalizione con una stampella “di sinistra” per potersi dire “di centrosinistra”. Ma l’appello o la porta lasciata aperta sarà l’ennesima perdita di tempo nel migliore dei casi e il nuovo imprigionamento di una piccola ma potenziale alternativa da costruire nel peggiore dei casi.
Una alternativa in costruzione che ha visto rimandare il suo cantiere di partenza troppe volte e che oggi, veramente, non ha più alibi davanti a sé: con tre destre che si contendono la guida del governo e del Paese, la difesa dello status quo economico e l’applicazione delle politiche liberiste su vasta scala, non esiste più la chiamata al “voto utile”.
Salvo che non sia fatta questa volta da quella sinistra che si unisce dalla risultanza di tre partiti e accusa chi non ne condivide la linea politica, strategica e tattica di essere l’elemento che la farà perdere e che impedirà una presenza della sinistra stessa, genericamente detta, in Parlamento.
Il canto delle sirene assume diverse tonalità, così come l’acqua assume sempre una forma diversa. Ma la lezione è sempre la stessa: a seguire il canto delle sirene e a cercare la forma dell’acqua si perde di vista il proprio cammino. E l’odissea continua…
MARCO SFERINI
foto tratta da Pixabay