Lo slogan è un po’ stucchevole per l’altisonanza con cui si pone, visto che il popolo oggi non sa di essere popolo e, pertanto, vive diviso sulla base dei consumi, delle opportunità (e degli opportunismi) che gli offre il mercato capitalistico. Quindi, esclamare “Potere al popolo” è una ovvietà per un comunista che però in questa fase suona come un grido di disperazione.
E disperazione in mezzo e ai lati di questa società ve ne è davvero tanta. Forse facciamo finta di non vederla, ce l’hanno nascosta dietro a paraventi di “modernità” che vorrebbero essere la vera dimostrazione di un’esistente benessere che non solo non è e non può essere per tutti ma che proprio si fa fatica ad immaginare quando si leggono i numeri dell’Istat sull’occupazione e quando l’Europa torna a bacchettare l’Italia per una crescita economica che dalle parti di Bruxelles proprio non si scorge nemmeno con il cannocchiale.
“Potere al popolo” è lo slogan con cui i ragazzi e le ragazze del Centro sociale “Je so’ pazzo” di Napoli (un ex ospedale psichiatrico giudiziario occupato) hanno meritatamente rilanciato un’assemblea che è stata improvvidamente annullata dopo essere stata annunciata da mesi: quella che si doveva tenere su input di Tomaso Montanari e Anna Falcone, i due garanti del cosiddetto “percorso del Brancaccio”.
Un percorso politico e sociale per costruire una lista di sinistra vera, di alternativa, alle prossime elezioni politiche di primavera 2018.
Ma, siccome Mdp, Sinistra Italiana e Possibile si sono smarcati e hanno scelto con un documento comune di dare vita ad un’altra esperienza politica che il 2 dicembre vedrà in Piero Grasso il probabile federatore (mentre Pisapia oggi vede il “pontiere” Fassino per cercare di capire se può esservi una “inversione di rotta” e quindi allearsi con il PD), il percorso del Brancaccio è saltato o è stato fatto saltare perché, a detta dei due garanti, non esistevano più le condizioni per una discussione paritetica, serena e costruttiva.
Continuo a pensare che, per quanto potesse essere asimmetrica, agitata e inconcludente, quell’assemblea doveva essere comunque fatta: per discutere. Per provare a capire cosa si poteva tenere e valorizzare e cosa si doveva buttare e abbandonare. Invece, arbitrariamente è stata presa una decisione che è stata subìta da chi, come noi comunisti, si riconosceva pienamente in quel tragitto di strada politica, creando un vuoto apparente in una parte della sinistra di alternativa che aveva speso energie e tempo per credere nel Brancaccio, per fare un passo indietro ancora una volta in quanto a sovranità politica personale e dedicarsi anima e cuore ad un progetto più largo dei confini attuali di Rifondazione Comunista.
“Potere al popolo” è uno grido di disperazione altisonante. Ma può essere un richiamo utile, concretamente descrivibile in un programma di recupero di una socialità labile, dispersa, sempre più assottigliata sotto i colpi della disaffezione alla partecipazione democratica per la scelta di una delega politica da dare a chi vuole rappresentare gli interessi di quello che, me lo permetterete, continuo con ostinazione a chiamare il “moderno proletariato”?
Può questo “grido di dolore” del 2017 essere un grido che prova a ricostruire per davvero una quinta opzione rispetto a tutto quello che oggi dimostra di essere un quadro politico che va dal nazionalismo esasperato e neofascista, conservatore e antidemocratico, fino ad una sinistra socialista che riedita idealmente il centrosinistra in varie forme, lo sogna, lo enuncia ma è incapace di rappresentare davvero una sola parte: quella del lavoro, dello sfruttamento della mano d’opera, dell’intelletto, di tutte le nuove forme di utilizzo delle persone per fare profitto?
Ancora una volta siamo in mare aperto, dopo un decennio di esclusione dagli scranni parlamentari, a ridosso delle elezioni, quindi con pochissimo tempo per costruire e far conoscere un progetto politico di base, “dal basso” (come si usa dire ormai per significare una distinzione con le operazioni verticistiche di alcuni partiti che pure esistono, anzi proliferano per altrettanta disperazione. Ma di natura completamente differente dalla nostra…).
Siamo stati ingenui nel fidarci di chi ci ha promesso di essere cambiato e di non guardare più al governismo tout-court? Siamo stati ingenui quando abbiamo accettato di credere nell’unica cosa in cui potevamo riconoscerci, se non pienamente, certamente in larghissima misura rispetto alle nostre convinzioni di trasformazione della quotidiana misera realtà italiana?
E’ possibile che la nostra fiducia sia stata eccessiva. Come oggi è eccessivo quello slogan: “Potere al popolo”. Lo ripeto ancora perché credo che la comunicazione sia importante e che parlare al popolo significhi parlare ad un soggetto collettivo che si senta interpellato come tale.
Non credo che il popolo voglia sentirsi veramente chiamato come tale: perché per noi il popolo è chi soffre, chi è sfruttato, chi non sbarca il lunario, chi nemmeno inizia a contare i giorni che mancano dalla fine dello stipendio prima della fine del mese.
Dobbiamo forse solo cambiare slogan. Ma non è secondario come problema, perché ci dice che dobbiamo riconoscere i nostri punti di riferimento sociale sapendo che sono atomizzati e per niente uniti. Che sono illusi o disillusi e, quindi, non camminano come nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo uniti verso un unico fine.
Saper individuare questa mancanza di sensibilità sociale proprio nel popolo è un elemento di verità da cui non si può prescindere nell’accingersi a dare vita ad una offerta politica quinta rispetto alle quattro che già vi sono in campo.
Quella che ho già definito “quinta opzione” deve aggiornare i programmi e per farlo deve aggiornare la sua comunicazione sociale nell’essere comunicazione politica.
La connessione politica, per l’appunto, nasce dalla connessione non solamente emotiva ma anche culturale nel senso sociologico del termine: formazione di una cultura comune, di un comune sentire.
L’istintività politica di decenni e decenni or sono è venuta meno: oggi i lavoratori non guardano “istintivamente” a sinistra perché non esiste più quella linea di collegamento tra singolo, società, luogo di lavoro, sindacato e partito che un tempo esisteva.
Ognuno dei cosiddetti “corpi intermedi” ha perso la sua naturale e giusta collocazione di classe. E, pertanto, anche la singola coscienza di classe è venuta meno e ha prevalso il moralismo capitalistico che fa sentire in colpa chi è sfruttato di più rispetto ad un altro sfruttato.
Così, il “potere popolare” è una chimera tanto quanto lo è un grido lanciato nel brutto mezzo della disperazione.
Ma c’è un elemento positivo in tutto questo; un elemento che spinge a credere sul serio che sia necessario, e dunque giusto, dare vita ad una condivisione di un progetto di alternativa sociale fondata su una completamente opposta visione delle cose e dei rapporti personali e collettivi oggi fossilizzatisi sul rampantismo singolare e cementati dalla paura dei nemici che non sono nemici, i poveri per i poveri: questo elemento è la voglia di non arrendersi nonostante tutto, nonostante la presunta marginalità in cui spesso ci si sente relegati.
Proprio questo sentimento dell’impossibile resa è l’elemento più classista che vi sia dietro alla volontà di non rinunciare a discutere, a parlare, a criticare e, quindi, a costruire.
Per questo i ragazzi e le ragazze di “Je so’ pazzo” hanno fatto bene a recuperare anche un pezzetto dello spirito del Brancaccio, magari a mutarlo in altro da sé perché già era venuto meno rispetto alla sua missione originaria.
E hanno fatto bene a non lasciar cadere nel vuoto il coinvolgimento che era nato e che deve essere recuperato. E’ l’ultima speranza che in questo 2017 abbiamo di provare a connettere politica e società nella sincera volontà di rappresentare senza infingimenti solo una determinata parte: una classe sociale che deve essere ricomposta, ridefinita ma che può riconoscersi in ciò che ogni giorno subisce dallo sfruttamento becero del liberismo.
Proviamoci. Non possiamo esimercene.
MARCO SFERINI
18 novembre 2017
foto tratta da Pixabay