Modesto contributo alla decostruzione della litania «la crescita esiste e porta occupazione». Quando sentirete ripetere il ritornello che rimbalza stancamente tra la Bce di Francoforte e Palazzo Chigi a Roma potrete finalmente rispondere: crescono i contratti precari o a tempo determinato, la maggioranza dei quali di durata inferiore ai sei mesi.
Chi lo dice? L’Istat, nella rilevazione di settembre. Rispetto al mese precedente c’è stato un aumento di 2 mila unità. Rispetto all’anno scorso la crescita è di 326 mila unità. Di questi solo 26 mila sono a tempo indeterminato. Gli altri? Il 94% degli occupati dipendenti sono a termine. Solo il 6% da occupati permanenti.
Chi lavora di più? Gli over 50 grazie alla «riforma» Fornero che ha aumentato l’età pensionabile. L’occupazione continua la sua discesa nella fascia anagrafica tra i 35 e i 49 anni, quella che nel tempo precedente alla crisi era considerata la più «produttiva»: i lavoratori adulti hanno perso 110 mila unità nell’ultimo anno.
Questo processo sta avvenendo in un mercato del lavoro stagnante dove la disoccupazione giovanile torna a crescere (al 35,7%) e, allo stesso tempo, cresce il tasso di inattività (+25 mila) sul mese, mentre su base annua è calato di 189 mila unità. A livello generale la disoccupazione a settembre si è fermata all’11,1%, ma restiamo lontani dalla media degli altri paesi europei. Nell’Ue a 19 si è passati in un anno dal 9,9% all’8,9% mentre in Italia il tasso dei senza lavoro è passato dall’11,8% all’11,1%.
Per riassumere: la crescita annua dell’occupazione è legata esclusivamente al lavoro a termine (il 94%); quasi cancellata l’occupazione stabile (il 6%); crolla il lavoro indipendente (le partite Iva: -60 mila unità). L’occupazione che esiste è quella del personale più anziano, mentre i «giovani» – quelli che sono sulla bocca di tutti – sono sempre più precari e ostaggi della zona grigia tra lavoro e non lavoro, tra inattività, lavori occasionali e intermittenti.
La sproporzione colossale tra i tempi indeterminati e i tempi determinati attesta l’unico processo strutturale in corso sul mercato del lavoro, da una generazione: il tempo determinato sta sostituendo il tempo indeterminato a velocità sostenuta. La crescita, drogata dal «quantitative easing» di Draghi e dai bonus di Renzi alle imprese, precarizza tutta l’occupazione esistente e la trasforma in maniera irreversibile. Se negli anni Novanta la prima generazione precaria poteva considerare il «tempo indeterminato» come uno dei possibili orizzonti, la nuova generazione dei precari vede all’orizzonte l’iper-lavoro e il sotto-salario senza redenzione.
L’occupazione oggi è una porta girevole: la transizione tra contratti diversi, da un’attività meno remunerata a un’altra gratuita, e viceversa. La disoccupazione non va considerata solo come l’assenza di lavoro retribuito, ma anche come permanente attivazione del soggetto alla ricerca di un’occupazione più formalmente definita in un precariato strutturale.
In sintesi: il Jobs Act considerato da Mario Draghi come il «totem» delle «riforme-che-aumentano-l’occupazione-senza articolo 18» è fallito. Doveva ri-subordinare tutti i lavoratori, ma il suo «peso» è irrilevante. Funziona, invece, la riforma Poletti dei contratti a termine che ha eliminato la «causale». Questa è l’eredità che il «renzismo» lascia al prossimo governo. I precarizzatori non sono mai stanchi. Avanti il prossimo.
ROBERTO CICCARELLI
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