Non si sente niente. Quando la presidente della camera Boldrini dà la parola alla ministra Finocchiaro per consentirle di porre la questione di fiducia sulla legge elettorale, dai banchi M5S si urla «venduta» e si lanciano fascicoli e rose rosse («per simboleggiare la morte della democrazia»), dai banchi di Sinistra italiana e Mdp si grida «vergogna». La ministra fa la sua comunicazione resistendo a un tentativo di placcaggio di La Russa, poi quasi scappa via. Si vede che non è contenta, nei giorni scorsi aveva lasciato intendere che la fiducia non era necessaria, appartiene alla corrente del ministro Orlando che è l’unico ad aver sollevato dubbi nel governo.
Gentiloni, che per mesi ha ripetuto di voler solo «seguire» e «spronare» il lavoro del parlamento sulla legge elettorale, «non era affatto entusiasta» della richiesta di mettere la fiducia arrivata dal Pd, per conto anche di Forza Italia, Lega e Ap. Il racconto è del capogruppo democratico Rosato e l’auto-retroscena fa parte dell’accordo con il capo del governo: il Pd mette in scena con il massimo della teatralità una richiesta prevedibile, perché già sperimentata con l’Italicum. Da Mattarella, oggi come allora, arriva il via libera, con una nota in cui si liquida la questione fiducia come «attinente al rapporto parlamento governo» ma si insiste sul valore positivo della riforma elettorale.
Il comunicato del Colle è identico a quello con cui due anni fa Mattarella non si oppose alla fiducia sull’Italicum, deludendo le opposizioni (anche, all’epoca, Forza Italia e Lega). In più adesso c’è la preoccupazione del presidente della Repubblica per un risultato elettorale affidato alle due leggi «non omogenee» consegnate dalla Consulta (risultato che toccherà a lui gestire) e la considerazione che ancora più pesante, perché senza reali precedenti, sarebbe stato un decreto elettorale. Sotto l’ombrello del Quirinale si posiziona anche la presidente Boldrini – «la fiducia è una prerogativa del governo» – che due anni fa aveva riconosciuto «una logica» a chi faceva notare come per il regolamento della camera non si possono chiedere fiducie quando è prescritto il voto segreto, che è sempre possibile sulle leggi elettorali.
Non mancano altri argomenti, visto che l’articolo 72 della Costituzione impone «la procedura normale di esame e approvazione» per le leggi elettorali. In questo caso gli unici due precedenti contrari precedenti all’Italicum non fanno testo, perché uno risale al fascismo (legge Acerbo) e l’altro alla legge «truffa» quando l’ostruzionismo bloccava l’aula e il presidente del senato si dimise. È infatti il precedente dell’Italicum a consentire la nuova fiducia. Allora Napolitano non era più al Quirinale, ma caldeggiò la fiducia malgrado anche quella legge contenesse l’indicazione del «capo della forza politica» che, adesso il presidente emerito ha chiesto di correggere.
Fuori tempo massimo e invano.
Perché non ci sarà nessuna discussione sugli emendamenti, soprattutto quelli a voto segreto (un centinaio) che avrebbero potuto fermare il Rosatellum. Oggi le prime due fiducie, domani quella sull’articolo tre – una delega che in pratica il governo dà a se stesso per ridisegnare i collegi – e i voti sugli ultimi due articoli (senza rischi, contengono norme favorevoli a Mdp sulla raccolta delle firme). Poi, forse venerdì, il voto finale. Inevitabilmente segreto, ma che preoccupa meno il Pd rispetto agli emendamenti. Il margine di vantaggio è ampio, circa duecento voti.
Proprio l’inevitabilità alla camera dell’ultimo voto segreto, dove i franchi tiratori potrebbero conquistare il bottino pieno, abbattendo la legge, aveva alimentato gli scetticismi sulla fiducia. La giornata di ieri ha chiarito che la vera ragione di questa mossa è quella di fare presto, per ripetere lo stesso aut aut ai senatori. Dai primi di novembre – orientativamente dalla settimana che comincia il 6, ma anche in questo caso è il governo che dà le carte – il senato sarà in sessione di bilancio; l’obiettivo del Pd è di far approvare definitivamente la legge, ancora con la fiducia, entro quella data. Servirà un’altra corsa, una settimana di lavoro in commissione e una in aula.
I numeri con cui ieri a palazzo Madama è passata la legge europea (solo 118 sì) testimoniano la difficoltà. Se alla camera i berlusconiani non hanno dovuto votare la fiducia, al senato l’assenza al momento della chiama potrebbe non dare sufficienti garanzie.
Ma è un altro il rischio che governo e maggioranza accettano di correre, approvando ancora una legge elettorale con la fiducia. È vero che la precedente, l’Italicum, non è stata sanzionata dalla Corte costituzionale per questa ragione (lo è stata com’è noto per altre) ma solo perché nessun tribunale aveva sollevato il problema davanti ai giudici delle leggi. Che anzi, rifiutando di auto assegnarsi il quesito, nulla avevano detto sulla pertinenza di questo genere di dubbi di costituzionalità. Accade adesso che già venerdì (a Messina) e poi per tutto il mese di ottobre, quattro tribunali (gli altri sono Lecce, Venezia e Perugia) potrebbero accogliere queste nuove osservazioni sollecitate dall’avvocato Besostri. Il problema della fiducia sulle leggi elettorali, allora, può arrivare comunque alla Consulta. A ridosso delle prossime elezioni.
ANDREA FABOZZI
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