Damnatio memoriae
Giorni fa ho ascoltato il comizio di chiusura di Matteo Renzi alla Festa de l’Unità di Roma e, per l’ennesima volta in tanti anni, ho sentito nuovamente proporre come argomento di valorizzazione del moderatismo di un inventato centrosinistra moderno il tema della sinistra “responsabile” contro quello della sinistra “irresponsabile” rappresentata dall’immagine stereotipizzata della colpa delle colpe per la sinistra: Fausto Bertinotti.
Premesso che sono stato molte volte critico nei confronti dell’ex Presidente della Camera dei Deputati e Segretario nazionale di Rifondazione Comunista, l’argomento – se così davvero lo si può definire – che farebbe di Bertinotti una damnatio memoriae per la sinistra è quanto di più falso si possa affermare: non fosse altro per il semplice motivo che, qualora anche molte responsabilità fossero sue, non lo sarebbero comunque tutte.
Ma i pretesti sono già di per sé elementi del discorso e del ragionamento privi di un fondamento reale: si adoperano per mostrare forza virtuale laddove esiste debolezza reale. E il renzismo è una debolezza per qualunque sinistra degna di questo nome; è un soltanto un luogo politico costruito su una piattaforma politica priva di cultura ideale (quindi senza una visione definita di società) che abbraccia progressismo e conservatorismo, il tutto in difesa delle classi dominanti e che ha rischiato di esaurire il suo percorso di ascendenza nella popolazione e, in particolar modo, tra la borghesia imprenditoriale e quella finanziaria quando ha provato a forzare l’impianto costituzionale per avere maggiori poteri di gestione politica del complesso intreccio tra sovrastruttura e struttura.
Gli argomenti della debolezza
Così, per tornare ad apparire vagamente “di sinistra”, l’argomento utile per contrastare la rimonta grillina e quella del centrodestra è sempre mettere accanto a sé un termine di paragone: fare il confronto con quella sinistra accusata di aver fatto progredire le destre togliendo la fiducia a governi di centrosinistra che, nel nome del progresso sociale, avevano fatto passi da gigante nella privatizzazione dei servizi e che, con il “Pacchetto Treu”, avevano iniziato la distruzione delle fondamenta dei diritti dei lavoratori.
Esiste poi un secondo argomento per mostrarsi rispettabili e degni del voto tanto dei padroni quanto dei moderni proletari: la chiamata alla difesa del Paese dal populismo. Tutto sta sempre nel vago, nella genericità dei termini che includono un po’ a destra e un po’ a sinistra e che evitano di passare per il centro.
Per battere destre classiche e Cinquestelle, Renzi chiama i suoi possibili interlocutori alla fine dei litigi. Non si capisce bene a chi si rivolga: a sindaci vicini a Pisapia? A Pisapia stesso? Ma nella perorazione all’ennesimo “voto utile” sta tutta la crisi del “partito della nazione” che non ha mai preso il decollo e che, come è appena accaduto in Germania, rischia da “partito tradizionale” (da “volkspartei” come direbbero a Berlino) di essere surclassato dalla protesta che non diventa proposta, dal perseguimento dell’odio come fondamento di una nuova politica a cui i classici della socialdemocrazia e del liberismo democristiano non riescono a dare contenuti sociali e, quindi, finiscono con il gestire, sulla pelle dei più deboli, gli interessi dei più forti.
Germania – Italia…
Angela Merkel non è Matteo Renzi: non ammanta i suoi discorsi di battute ad effetto e di semplicità che rasenta il banale cronico. La cancelliera tedesca è pragmatica, è veramente una “politica”, una statista che impiega magari due mesi (come accadde nell’elezione del diciottesimo Bundestag) per costruire una alleanza di governo (in quel caso si trattò della tanto celebre “Große Koalition” tra Union e SPD) ma poi applica il programma liberista che è l’asse portante delle politiche della Commissione Europea.
Non mancano le frizioni: anche i difensori del mercato litigano fra loro. Da un lato in questi anni il “falco” ministro delle finanze Wolfgang Schäuble e dall’altro lei, la cancelliera che prova a costruire una base di consenso sociale a riforme che sono impattanti sul lavoro, che richiedono agli altri stati dell’Unione di “fare i compiti a casa”.
La Germania, dunque, cavalca l’onda liberista, diventa la “locomotiva” d’Europa e abbassa la disoccupazione come nessun altro stato europeo riesce a fare. Importa ed esporta, attiva una economia che traina l’intero Vecchio continente ma il governo Merkel deve fare i conti con le contraddizioni che tutto ciò trascina con sé: molti giovani universitari non trovano lavoro, vivono di sussidi statali e poi si affaccia alle porte il fenomeno delle migrazioni di massa dalle zone di guerra e di povertà assoluta.
Lei apre le porte, ne fa entrare quasi un milione. Ma questo gesto politico e sociale di alto impatto morale, suscita rigurgiti nazionalisti: vengono a galla vecchie ruggini, si mettono in discussione i fondamenti democratici della Repubblica federale e si arriva persino a discutere se l’orrore dell’Olocausto debba essere incluso nei valori della memoria comune tedesca. Fino ad oggi nessuno aveva messo in ipotesi ciò. Segno dei tempi.
In Italia eravamo abituati a vedere i reduci del fascismo a sedere in Parlamento. In Germania l’ingresso di quasi cento deputati di Alternative für Deutschland nel Bundestag è un trauma: almeno si spera lo sia per quell’87% di elettori che hanno preferito partiti che non fanno del nazionalismo un trampolino di lancio politico per la diffusione di messaggi di odio, con un linguaggio volutamente muscolare, che senza mezzi termini vorrebbero cacciare “i negri” e i cittadini tedeschi di origine turca in Anatolia…
Dati, analogie e differenze
84 anni dopo la nomina di Hitler a cancelliere, le analogie tra l’ieri e l’oggi sono molte: una crisi economica che attraversa i continenti, la superiorità tedesca su altre popolazioni ad esempio, la sfiducia nei partiti democratici tradizionali.
Oggi ci troviamo a ragionare di un populismo dagli evidenti tratti neonazisti che abilmente non mostra svastiche, che non inneggia direttamente ed esplicitamente al nome di Hitler, ma che fa ciò che in Italia fanno molti fascisti che si dicono “nazionalisti”, “patrioti” oppure “sovranisti”: vuole che la nazionale di calcio sia composta solo da autoctoni, mette in dubbio lo sterminio di milioni di persone operato nel sistema concentrazionario del Terzo Reich, minimizza l’Olocausto come “fenomeno che può prescindere dall’analisi storica” e vuole “liberarsi dal culto del senso di colpa” che i tedeschi si portano dietro come bagaglio necessario per la non rimozione della memoria delle atrocità naziste.
E la crisi dei partiti tradizionali torna, come nella Repubblica di Weimar, a riversarsi sui partiti di massa, sui partiti della “democrazia borghese”: nel 1930 – ’33 si trattava del Zentrum oggi della CDU-CSU.
Per i socialdemocratici è un discorso differente: dopo l’esperienza della “Große Koalition” hanno rischiato di fare la fine dei socialisti francesi. La SPD esce da queste elezioni federali con il minimo storico del 20,5%, mentre Die Linke aumenta di poco i consensi mantenendo il suo radicamento nell’ex Repubblica democratica tedesca e aprendo una breccia rossa nella Saar, ottenendo 5 seggi in più della volta precedente.
In termini di seggi, CDU-CSU ne perdono 65, i socialdemocratici 40, i liberali ne conquistano 80, i populisti nazionalisti balzano in un solo colpo a 94 seggi, i Verdi (filoeuropeisti e filoliberisti) ne conquistano 4 in più rispetto al precedente gruppo nel Bundestag.
Il flusso di voti dai partiti del centro-sinistra (il trattino qui è d’obbligo, non essendo una amalgama indistinta come in Italia) verso l’AfD e i Liberali è del tutto evidente: il partito di Angela Merkel viene drenato di consensi da una attrazione esercitata da risposte conservatrici e liberali e da altre di chiaro stampo demagogico.
AfD recupera più di un milione di voti dalla Union tra CDU e CSU ma quasi 800.000 voti li ottiene pure da sinistra: metà da quella moderata della SPD e metà pure da Die Linke.
Il grosso del consenso per i neonazisti e nagazionisti arriva dalle zone dell’Est, soprattutto dalla Sassonia dove il partito di governo della Merkel ha governato ininterrottamente e dove il risentimento verso le politiche di Berlino è maggiore.
Forse l’analisi di composizione del consenso elettorale per Alternative für Deutschland è molto più semplice di quello che si può pensare: la maggioranza dei votanti va dai 30 ai 50 anni (41% del totale) e si tratta di persone che hanno un titolo di studio che va dalle scuole professionali (14%) al liceo (11%). Solo il 7% dell’elettorato di AfD ha una laurea in tasca. Interessante il dato che emerge sulle professioni svolte dagli elettori del moderno populismo nazionalista: il 20% sono operai, l’11% impegati, il 12% lavoratori autonomi e per ultimi arrivano gli impiegati pubblici col 10%.
Quindi la metà dei consensi è di uomini (su 100 tedeschi maschi, 16 hanno preferito AdF) e donne (su 100 donne tedesce solo il 9% ha scelto AdF) che hanno una discreta scolarizzazione e che sono parte del ceto medio e di quello operaio dell’Est. Nei territori della ex BRD (per noi italiani l’acronimo era RFT) di Bonn l’AfD non riesce ancora a sfondare con decisione anche se qualche passo in avanti lo fa soprattutto nella Baviera meridionale.
Una analisi della composizione del consenso che ci parla di un disagio profondo legato al timore che il benessere tedesco possa venire meno a causa dell’immigrazione che, non per niente, è il cavallo di battaglia della xenofobia e del razzismo crescente e che trova nell’AdF l’espressione da oggi presente nel Bundestag.
“Giamaica” e ambito europeo
Ed ora la formazione del governo uscente si affida con le ipotesi alla “coalizione Giamaica”, quella che comprende i colori con cui vengono contraddistinti centro merkeliano, ambientalisti e liberali. L’europeismo sembra non essere in discussione ma è proprio su questo architrave politico che AfD ha costruito la sua fortuna politica. Un “recupero dei valori del popolo tedesco” laddove ciò significa apertamente una dichiarazione di potenza sociale: “riprendiamoci il nostro popolo”. E’ questo lo slogan dei neonazisti che ottengono il plauso di tutte le forze neofasciste d’Europa.
Non c’è antisemitismo esplicito che serpeggia in questo revachismo di germanicità autentica: il pericolo da mostrare al popolo oggi è l’Islam. Il nuovo nemico della purezza della razza è l’arabo et similia…
Per cui le analogie con il 1933 si possono anche fare, sapendo bene che siamo nel 2017 e che una certa cornice sovrastatale europea dovrebbe servire a proteggerci vicendevolmente dal ritorno di tentazioni autoritarie.
Ma l’autoritarismo non è soltanto quello di una estrema destra che vive di odio. L’autoritarismo è anche quello spietato delle banche centrali che hanno fatto dell’Europa un grande serbatoio di consensi per chiunque soffi sul fuoco della disperazione sociale: se in Germania la disoccupazione è attorno al 5%, in Grecia, Spagna, Italia, paesi dell’Est è molto più di un semplice problemino aritmetico di cifre.
La grandeur tedesca in economia nasce e cresce proprio su quelle imposizioni che la Troika ha esercitato su nazioni deboli e incapaci di recuperare un debito che è il primo agente propagatore del malcontento, dell’immiserimento di massa.
Ritorno in Italia
L’esito del voto tedesco influenza profondamente, dunque, non soltanto il più vasto quadro degli interessi europei ma si riversa inevitabilmente anche nel nostro Paese: i differenti giudizi sulla “tenuta” di Angela Merkel e sul successo di AfD separano Berlusconi e Salvini. Il primo abbraccia da destra la moderazione popolare europea mentre il secondo plaude al successo populista-xenofobo chiarendo che l’unica differenza tra la Lega e AdF sta nel fatto che quest’ultima sarà per quattro anni all’opposizione mentre il partito del Carroccio è destinato a governare.
Un silenzio imbarazzato del PD viene rotto soltanto dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Gentiloni. E a sinistra? Che accade?
Forse dovremmo imparare da questa tornata elettorale germanica che la crisi della sinistra di alternativa non è solo, purtroppo, italiana. A macchia di leopardo si estende su tutta l’Europa: se escludiamo la buona affermazione in Inghilterra e anche in Francia con un Melenchon sempre pronto a dare battaglia contro il “colpo di stato” delle classi dirigenti e il macronismo iperliberista che avanza, la prova della “Die Linke” ci fa dire che in presenza delle paure razziste, gran parte del moderno proletariato preferisce una soluzione di destra. O forse, fuori da schematismi ideologici comprensibili purtroppo non più alla stragrande maggioranza delle masse, possiamo affermare che la gente che vive e sopravvive del proprio lavoro e del proprio indennizzo di disoccupazione cerca rassicurazioni che non trova nelle forze comuniste e socialiste di sinistra.
E’ venuto meno, quindi, quel sentimento egualitario che era cultura dell’egualitarismo stesso e su cui si fondava l’internazionalismo proletario di un tempo. Oggi i lavoratori e i disoccupati, i precari e i borghesi piccoli piccoli non spingono lo sguardo oltre i confini nazionali e temono questa Europa che è quel vampiro assetato di interessi economici pronta a schiacciare il paese più debole in nome del mantenimento di quello più potente che traina tutta l’economia continentale.
I tedeschi hanno un buon tenore di vita e, proprio per questo, temono di perderlo e si affidano a demagoghi e neonazisti anche per punire politiche dei tradizionali partiti di massa che sono visti come ferri vecchi, incapaci di fare fronte a problematiche che vengono esacerbate e ingigantite proprio perché con una grande paura si gestisce una grande ignoranza.
In questo senso, Italia e Germania sono simili. Ma solo in questo senso. E la prospettiva di un cambiamento da sinistra è irrealizzabile se non si riforma una Europa matrigna, padrona e anche stracciona sul piano morale: come madame Thénardier, così ben descritta da quel grande pittore di miserie sociali che fu Victor Hugo.
L’aristocrazia operaia e lavoratrice di oggi ha paura di fare la fine di quella italiana, greca, spagnola. E anche qui, come se ne evince chiaramente, è la “nazione” a prevalere, quindi l’egoismo, il piccolo cortile. L’internazionale, ancora una volta, è messa da parte dal ritorno dell’egoismo proprietario, dalla rivincita del capitalismo nella sua spietata chiave liberista.
MARCO SFERINI
26 settembre 2017
foto tratta da Wikimedia Commons