Ha destato scalpore in questi giorni l’iniziativa del sindaco di un paese della riviera del Ponente savonese, il bellissimo borgo marinaro di Noli, di voler intitolare una lapide a Giuseppina Ghersi, ragazza tredicenne che, vissuta nel mezzo delle Seconda guerra mondiale in una famiglia con esplicite simpatie fasciste, girava per Savona armata di pistola ed era solita, secondo molte testimonianze di partigiane come Vanna Vaccani Artioli che, personalmente, mi raccontarono quei fatti, operare la delazione contro i partigiani stessi presso le Brigate nere della Repubblica sociale. Al termine della guerra, Giuseppina Ghersi venne uccisa.
Non esiste prova documentale, storiograficamente accertabile, di ciò che veramente avvenne: vi è chi sostiene che venne rapita dai partigiani, violentata e il cadavere abbandonato davanti al cimitero di Zinola a Savona.
Vi è chi invece sostiene che i partigiani non c’entrassero nulla e che la morte della ragazza fosse stata opera di presunti partigiani, che si facevano indicare come tali nei giorni immediatamente dopo la Liberazione, quando il vento era completamente cambiato e molti cercavano scampo dietro una verginità civile e politica nuova pur non avendo sostenuto minimamente la lotta resistenziale.
Di certo sappiamo che la ragazza venne uccisa il 30 aprile del 1945. Giorni terribili, di rese dei conti da troppo tempo rimandate e che solo dopo la Liberazione scattarono con il ricordo bruciante dei tanti atroci crimini messi in essere dai fascisti e dai nazisti che avevano tiranneggiato in tutta Italia per ventitré anni i primi e per più di due anni i secondi.
Fu picchiata, stuprata, vilipesa quella ragazza di tredici anni? Non è dato saperlo con certezza ma è evidente che chi non è stato o non è fascista o nazista non può avere in disprezzo la vita umana. Si è battuto per esaltarne a pieno il diritto primo alla libertà, personale e collettiva, all’uguaglianza sociale e quindi qualunque crimine è esecrabile.
Giuseppina Ghersi viene rappresentata sempre dai fascisti, che la vogliono celebrare strumentalmente provando a denigrare per intero la Resistenza e i suoi valori, con la foto della prima comunione, mai col volto della ragazza più matura. Bisogna muovere a maggiore pietà il pressapochismo italico e la facile commozione. Bisogna usare tutte le armi massmediatiche possibili per dimostrare la brutalità dei “partigiani comunisti”. Eliminando il contesto sociale, storico e politico di una guerra unica nel cammino umano: una tragedia globale che ha fatto più di 54 milioni di morti.
Nel corso degli anni, ho sentito la voce viva e ho visto gli occhi di Vanna tornare lucidi nel raccontarmi del fratello Franco, giovane partigiano, brutalmente torturato e ucciso dai fascisti a 18 anni ad Albenga, e da lei riportato a casa in mezzo alle macerie di un’Italia distrutta materialmente e moralmente.
Ho ascoltato la voce di un altro vecchio partigiano raccontarmi la difficilissima decisione di giustiziare un compagno di lotta diciannovenne che aveva saccheggiato un’abitazione di contadini. Vigeva la legge marziale nella Resistenza, durissima e spietata, per mantenere una disciplina tra formazioni che avevano costruito la coscienza dell’essere delle bande “militari” attraverso un percorso inconsueto, completamente diverso da quello dei reggimenti ufficiali del Regno d’Italia. E ricordo le lacrime di quel partigiano nel descrivere la pena di una decisione che non poteva non essere presa ma che pesava sull’umana coscienza civile. La guerra è perversa perché costringe anche i più nobili sentimenti umani a diventare disumani, ad essere il contrario in nome proprio di alti valori di libertà e democrazia.
Ho sentito le voci di vecchi partigiani e deportati nei lager nazisti raccontarmi della atroce fame, del freddo di quegli inverni sotto il tiro dei mitra, e di quando, a fine guerra, ritrovato un panino ammuffito in un cassetto, con la disperazione dei morsi dallo stomaco, con un coltello improvvisato si raschiava via dal pane quella muffa per poter mangiare quel che rimaneva di quel sassolino di farina e di acqua…
E ho sentito i racconti di chi subì la deportazione e vide il confine tra vita e morte ad Auschwitz – Birkenau e, per un puro caso dato dagli eventi fece ritorno in Italia e partecipò, con cento colpe nella mente e nel cuore d’essere ancora vivo rispetto ad una moltitudine di cadaveri inceneriti nei forni crematori, gassati con il Ziklon B, alla ricostruzione di un Paese che era completamente allo sbando. Come oggi. Ma con l’aggravante che allora non esisteva proprio nulla: dalle leggi alla Costituzione, dall’assetto economico a quello civile.
Ho sentito tante voci e, per ultima ma non ultima, mi viene alla mente il lungo racconto di mio nonno Antonio che spesso mi snocciolava quelli che oggi potremmo banalmente definire “aneddoti”, ma che erano robuste fette di vita vissuta nel mezzo dei bombardamenti sullo stabilimento dell’Ilva di Savona, sulla fortezza del Priamar.
La durezza delle squadracce fasciste che malmenavano senza alcuna pietà donne, vecchi e bambini che fuoriuscivano dalla loro condotta “irreprensibile” di vita, dalla morale fascista, dalla fascistizzazione totalitaria di un presente da cui si voleva solo fuggire e presto.
Dunque, chi da umano gioisce per le violenze che possono essere inflitte ad un proprio simile? Io no.
Ciò detto, astrarre i singoli episodi e farne elemento di condizionamento culturale e quindi stereotipo di un grande movimento popolare di massa che ha sconfitto nazisti e fascisti e ha ridato la libertà all’Italia e al popolo è fare operazione peggiore del revisionismo storico: è provare a modificare le pietre angolari della storia, smussandone la durezza marmorea che ci ha permesso di crescere, almeno noi nati quarant’anni fa, con una consapevolezza su cosa fosse stato quel fascismo che non avevamo vissuto.
Provare a confondere le giovani generazioni facendo passare il messaggio della Resistenza fatta da delinquenti e stupratori è pari a chi provò un tempo a dipingerla come una serie di bande che nelle malghe friulane si facevano la guerra in nome delle differenti prospettive anche ideologiche sul futuro del Paese.
Non si può studiare e leggere la Storia in questo modo.
Perché è una lettura a posteriori, come è evidente debba essere, ma è a posteriori oltre che temporalmente anche mentalmente: non si può decontestualizzare nessun evento.
E la guerra porta con sé tragedie enormi.
Così non si può astrarre il particolare dal generale e farne elemento di esaltazione o di stigma a seconda dei casi.
Se io guardassi il comportamento del popolo tedesco ispirandomi al grande coraggio di Sophie ed Hans Scholl e di altri ragazzi della Rosa bianca dovrei pensare che tutti i tedeschi erano quindi coscienti del dramma in cui sarebbe sprofondata la Germania hitleriana?
Non posso fare una operazione del genere ma posso valorizzare quella singola esperienza.
Così pure per eventi tragici e deprecabili non si può prenderli, stereotipizzarli e farne elemento di condizionamento complessivo della storia in cui sono stati vissuti.
Gli storici appureranno con libri e studi tematici ciò che è avvenuto, ma la coscienza ci deve dire fin da ora che non c’è una parte giusta meno giusta per singoli raccapriccianti episodi e non c’è una parte sbagliata meno sbagliata per singoli episodi meritori di essere definiti quanto meno minimamente umani.
Qualcuno ha scritto sulle reti sociali una condanna delle strumentalizzazioni della storia attraverso la vicenda triste di Giuseppina Ghersi. Ho condiviso quasi tutto. Il quasi è dovuto al finale dove si trae questa conclusione: “resta la pietà e il rispetto per i militi fascisti morti per le loro idee“.
Davvero si può porre ad uguale livello di pietà e rispetto i partigiani e i trucidati dai nazisti e dai fascisti con i nazisti e i fascisti stessi? Con gente come Luciano Luberti, il boia di Albenga?
Mi dispiace, ma è questo che ci ha sempre diviso sul piano dei riferimenti ai valori resistenziali e antifascisti: per me non esiste una memoria condivisa e nemmeno condivisibile.
Esiste solo il rispetto per chi si è battuto contro il più grande olocausto della storia concentrato in pochissimi anni e, per questo, definibile in tal senso.
Esiste solo il rispetto per i partigiani, per tutti gli uomini e tutte le donne, per chiunque, sotto molteplici colori (dagli anarchici ai liberali) mise a repentaglio la propria esistenza per la libertà e la giustizia sociale.
Esiste solo il rispetto per chi ci ha regalato la libertà e questa libertà non potrà mai essere da parte nostra terreno di condivisione della memoria con i fascisti.
La condivisione può avvenire solo a senso unico: dall’abiura del fascismo verso la democrazia repubblicana.
Non viceversa.
Nessun riconoscimento e nessuna lacrima per i fascisti e per i nazisti e nessuna lettera maiuscola per fascismo e nazismo. Non meritano nemmeno la dignità che la grammatica assegna ai nomi propri di persone, eventi e fenomeni collettivi.
MARCO SFERINI
16 settembre 2017
foto tratta da una vignetta di Mauro Biani