Ancora una volta Fausto Bertinotti si esprime con nettezza e ha ragione: con una semplice parola riunisce in un concetto ciò che a tutti noi è palese ma che forse ci rifiutiamo, per diverse ragioni, di vedere fino in fondo. La sinistra è stata, come afferma l’ex presidente della Camera dei Deputati, una “evidenza” per un secolo, era percepibile, palpabile, appunto era evidente. Oggi questa percezione è impercettibile, non visibile.
Quindi un capitolo si è chiuso e ce lo raccontiamo da tempo ormai. Ma non riusciamo organizzativamente a costruire una proposta politica “evidente” per l’appunto: non riusciamo, dunque, a creare le condizioni minime per riunire attorno ad un programma condiviso le forze che ancora si richiamano al socialismo e al comunismo.
Perché è di questo che occorre parlare, parlare e riparlare ancora: dell’alternativa politica da costruire per costruire quella sociale.
Dopo congressi, conferenze e molte riunioni in tutta Italia e anche nel Vecchio Continente, è risultato chiaro che una alternativa sociale è il preambolo necessario per una alternativa politica. Queste due necessità si compenetrano e si aiutano reciprocamente nel ricostituire le fondamenta di una sinistra anticapitalista e antiliberista del futuro.
Oggi, quindi, viviamo in un limbo, in un luogo fuori dalla realtà: la vera “utopia” non è mai stato il comunismo e nemmeno l’anarchia. La vera utopia oggi siamo noi stessi.
Uscire dal processo di utopizzazione in cui siamo finiti, quindi dal “non-luogo” in cui ci troviamo e in cui pochissimi ci scorgono, non è semplice perché si tratta di riconnettere i fili tra la nostra volontà di trasformazione del reale, ciò che veramente esiste oggi sul piano della critica sociale e, quindi, del mondo del lavoro e del non-lavoro (ma sempre di sfruttamento, in differenti forme, si tratta). Ma per farlo serve riconquistare gli sfruttati ad una rialfabetizzazione culturale che è passata in secondo piano e che oggi è la vera intercapedine, il vero vuoto pneumatico tra noi e chi non ha più, appunto, l'”evidenza” della sinistra di alternativa.
Manca l’evidenza politica ma, a causa del degrado culturale del Paese (e non solo dell’Italia…), manca anche una evidenza sociale: per cui tra sfruttati non ci si riconosce e avanti a tutto viene messa la guerra classica tra i poveri. Il migrante è il nemico; il rom è il nemico; in generale il povero è nemico per un altro povero.
Quando si prova a renderne consapevoli le persone povere, diciamo quelle indigenti, diciamo meglio ancora – per evitare stigmatizzazioni che potrebbero essere percepite come offensive (nessuno ama sentirsi definire “povero” in una società di rampantismo quotidiano e di individualismo esasperato) – coloro che non sono “imprenditori” di un bel niente del fatto molto elementare che il loro avversario non è chi vive più o meno nelle medesime condizioni ma il padrone, proprio il signore edulcoralmente chiamato “imprenditore”, rifiutano questa contrapposizione classista.
E lo fanno perché ciò che per loro è oggettivo oggi non è la lotta di classe ma la lotta tra identità che hanno prevalso su quella di classe.
Quindi, la consapevolezza dell’essere ha lasciato il posto alla consapevolezza dell’apparire: ci si distingue non per appartenenza ad un ceto ma in base alla visione che si dà di sé stessi. La trasversalità dei consumi, la possibilità di accedere a determinati standard di vita anche per i moderni proletari ha cancellato la linea di demarcazione tra ricchi e poveri e ha fatto apparire la percezione della propria condizione di povertà (se non si discute almeno di una condizione di reale degrado sottoproletario) come sempre meno grave, superabile grazie al possesso di qualcosa: un telefonino, una macchina, un vestito.
Il capitalismo ha, dunque, provato a livellare le classi, ad avvicinarle apparentemente mantenendole invece realmente lontane e sempre più distanti. La forbice tra chi possiede troppo e chi possiede quasi niente si è allargata in Italia ai livelli in cui era rappresentata statisticamente a livello mondiale alcuni decenni fa.
La mancanza di evidenza per la sinistra comunista e di alternativa è frutto di un complicato processo di ristrutturazione antisociale del capitalismo che ha ben operato nell’aumentare la capacità competitiva tra i continenti e ha sfruttato le divisioni per aumentare il divario tra popoli ricchi e popoli in miseria caricando su questi ultimi l’infamia del marchio del “pericolo”.
Migrando, questi popoli sono diventati quell'”invasione” che non esiste ma che sempre viene ripetuta in televisione dietro la fomentazione di odio e di sospetto.
Invece che domandarsi come mai i campi per i migranti in Libia saranno istituiti dietro elargizioni di prestiti commerciali tra paesi che si stringono sorridenti le mani mediante i loro capi di Stato e governo, i proletari moderni guardano le trasmissioni “dalla loro parte” e ogni sera si imbevono di anticultura, di razzismo a buon mercato. Davvero a buon mercato!
La mancanza di “evidenza” è figlia di tutto ciò e dell’obliare il passato recente: dove sono i legami con la cultura marxista e con le esperienze comuniste del ‘900? Mi riferisco non tanto alle esperienze di un socialismo che si è negato da solo nel diventare “capitalismo di Stato” nei paesi dell’Est europeo, ma a quei grandi movimenti di massa che erano spontanei a volte e che sono diventati essi stessi “cultura” perché erano un sentire comune e, quindi, un divenire comune di processi di liberazione che hanno costruito lotte oggi inimmaginabili.
Si può pensare o dire che molte lotte sono state vinte e che quindi non c’è bisogno di nuovi movimenti di massa. E’ falso. Nessuna lotta viene vinta per sempre e ha bisogno costantemente di protezione se vuole conservare il suo status di “diritto”. Lo abbiamo visto palesemente il 4 dicembre scorso quando abbiamo dovuto difendere la Costituzione da un attacco volto a collegare apparato statale democratico con apparato economico del mercato eliminando diritti acquisiti in settant’anni di repubblica.
Dobbiamo, dunque, uscire dal “non-luogo” in cui siamo finiti ma servirebbe a poco se ad uscirne fossimo soltanto noi. Non è tempo per una rievocazione storica dei principi politici leninisti sul partito comunista. Generali senza truppe ve ne sono fin troppi. Servono comuniste e comunisti che, consapevoli della situazione, lavorino principalmente a mantenere viva la possibilità di uno sguardo alternativo sulle cose presenti.
Questo mantenimento non può però essere fine a sé stesso, perpetuarsi da solo: deve essere il primo passo per allargare i dubbi, rimettere in campo contrapposizioni di classe sostituendole a quelle di etnia, di presunta razza, di religione, di sesso.
La ricomposizione di una coscienza sociale, quindi la rinascita del movimento comunista e della sinistra di alternativa, serve ripeterlo ancora, passa attraverso la riacquisizione della consapevolezza diretta o indiretta di una appartenenza sociale e quindi va reso “evidente” chi sta dalla parte di chi: vanno resi evidenti gli interessi economici.
Come cantava Paolo Pietrangeli e come ripete Fausto Bertinotti, va costruito un “uomo nuovo” perché il capitalismo oggi ha totalizzato economicamente l’essere umano e l’ha trasformato in questi decenni in un burattino al servizio di una “normalità” che non è tale.
Chi ha evidenza, consapevolezza di tutto ciò non può arrendersi e smobilitare. Non può darsi per vinto. Su questo punta chi oggi vuole demoralizzarci ulteriormente e farci apparire come vecchi residui del passato. L’hanno sempre sostenuto. Oggi può farci più paura una simile affermazione perché oggi siamo privi di una cultura che ci circondi e ci protegga: la dobbiamo inventare nuovamente, stando sulle basi di un passato libertario che non possiamo escludere dalla nostra azione politica quotidiana, per quanto piccola o grande che sia.
Usciamo dall’utopia, dal limbo e torniamo ad essere una minaccia seria proprio perché con “evidenza” milioni di sfruttati ci possano e si possano loro stessi considerare quell’alternativa che oggi il mercato pensa di aver spazzato via.
MARCO SFERINI
30 agosto 2017
foto tratta da Pixabay