Ma sono più difensori di Berlusconi quelli che stavano in piazza a osannarlo e a mandargli mille e mille baci in quel di Brescia o i democratici del PD che lo hanno riportato al governo…? La domanda, lo so, è provocatoria, ma mai come ora è così poco lontana dalla verità da non poter non essere fatta anche in questa chiave di lettura.
La piazza di Brescia, quella che inveisce contro la giustizia, contro i magistrati è una piazza che è rinvigorita nel suo strepitare dalla condizione politica in cui un PDL praticamente sconfitto un anno e mezzo fa e in odore persino di lacerazione interna, è ritornato al governo dopo una serie non di casualità che si sono incastonate alla perfezione l’una con l’altra, ma secondo un preciso disegno politico che ha trovato attuazione dopo due mesi di indecisioni dettate da un punto fondamentale: come evitare il governo Bersani appoggiato magari esternamente dai grillini e come ricomporre il blocco sociale borghese con una rappresentanza unitaria e trasversale in una maggioranza di un governo che potesse appunto comprendere PD e PDL.
Mario Draghi questo voleva: la sicurezza, la garanzia che non si sarebbe deviato nemmeno di un millimetro dal percorso precedente e che, con o senza Monti, l’Italia avesse nuovamente un esecutivo perfettamente interprete delle esigenze del mercato continentale e del capitalismo internazionale.
L’operazione dei 101 franchi tiratori è così comprensibile: non c’è stata premeditazione politica nell’affossamento della candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica? Difficile poter pensare che un blocco così ampio della rappresentanza parlamentare del più grande partito italiano potesse agire per pura casualità, verificando sul campo stesso delle votazioni se o meno ci fosse una tendenza in questo senso.
A pensar male si farà sempre peccato, ma quei 101 hanno risposto ad un preciso disegno politico e lo hanno fatto dando un segnale a tutto il Partito democratico: in prima battuta alla sua segreteria politica e al suo, ormai, ex segretario.
Arrivati alla definizione del disegno delle “larghe intese”, quindi della ricomposizione della rappresentanza politica della borghesia imprenditoriale di questo disgraziato Paese, il PDL e Silvio Berlusconi hanno riottenuto un ruolo politico che avevano perduto e che oggi, proprio in conseguenza di ciò, può far valere in ogni piazza.
Berlusconi fisicamente è fuori dal governo, ma c’è non in ispirito, bensì nella importante compagine governativa guidata da Angelino Alfano.
Non mi capacito più della logica del “meno peggio”. Ho già avuto modo di scriverlo: la viziosa tendenza a preferire il male minore ci ha condotto a valorizzare ancora una volta la parte più eversiva della politica italiana, quella che sovverte i princìpi democratici, che attacca la giustizia perché non le si dimostra compiacente con sentenze assolutorie.
Il Partito democratico ha, spiace doverlo dire, ancora una volta una responsabilità storica su questo piano. L’inqualificabile campagna elettorale per il voto utile si è dimostrata un boomerang e tutta la fragilità del PD è venuta allo scoperto quando si è visto che questa nave era messa insieme con saldature posticce, tenuta a galla da un minimo comun denominatore chiamato “liberismo temperato”, ma alla fine capace di non porre argini e confini alla propria identità, tanto da legittimare Berlusconi, Alfano, Brunetta e compagnia cantando nella compartecipazione equipollente ad un esecutivo che sovverte il voto delle urne e che va certamente contro tanto l’indicazione elettorale data alla già coalizione “Italia bene comune” sulla base delle primarie, del programma massimo e minimo (i famosi “otto punti”), quanto quella data alla coalizione del centrodestra.
Tanto è vero che le ali “estreme” si smarcano: Lega e Sel sono all’opposizione e, nell’esserlo, entrambe dimostrano una certa coerenza e aderenza ai loro capisaldi. La situazione, ovviamente, gioca a favore di queste due formazioni politiche, ma le difficoltà rimangono, perché la parte del leone dell’anti-governo e dell’anti-casta la fa sempre l’ambiguo movimento grillino che, per voce tonante di Beppe Grillo, torna ora sulle trame di un disegno xenofobo che può sempre essere utile in tempo di sondaggi magri o di profumo di elezioni, anche se sono semplici amministrative localissime.
La piazza di Brescia, dunque, ha avuto una legittimazione indebita, che non avrebbe dovuto avere. Un partito di governo, con presente il suo vicepresidente del Consiglio nonché ministro degli interni, ha sferrato il suo anatema contro la magistratura e ora Berlusconi si ripresenta in televisione per riaffermare la lunga sequela di ipotesi complottiste ai suoi danni da parte di un gruppo di giudici non si sa se più “comunisti” (di sicuro non più “comunisti” del PD), ma persecutori a prescindere dal colore che starebbe sotto la toga.
La destra più becera d’Europa, quella italiana, l’ha legittimata anche una parte consistente del padronato, dei poteri economici forti, degli ambienti militari e di altri settori dell’apparato complessivo dei collegamenti tra politica ed economia; ma a benedirne i passi – a volte con una consapevolezza disarmante, altre volte con una ancora più disarmante ingenuità – è stato un centrosinistra incapace di rappresentare da solo gli interessi della borghesia italiana e costretto a ricorrere alle “larghe intese” pur di tornare a governare e dirigere quegli affari che solo da Palazzo Chigi si possono dirigere.
Non c’è alcun intento salvifico per il Paese nell’azione del governo. Dobbiamo recuperare tutta la nostra malizia per leggere tra le righe e vedere che la disonestà morale, politica e sociale di questo esecutivo guidato da Enrico Letta è tutta lì, palese, nella composizione farcita tra PD e PDL e custodita con il patto siglato da un Presidente della Repubblica rieletto ad uopo, quale unico possibile garante della continuità con l’anno e mezzo di destrutturazione sociale operata da Mario Monti in favore delle classi più agiate.
Come si può pretendere dal Presidente della Repubblica una stigmatizzazione della vergognosa manifestazione di eversione fatta dal PDL a Brescia, eversione contro la giustizia prima ancora che contro chi la difende.
Napolitano ha costruito le condizioni perché al governo ci fosse anche quel partito che era a Brescia ad accusare i magistrati di essere dei cospiratori contro l’evasione fiscale, la ladroneria di ogni tipo.
C’è una evidente corresponsabilità, neppure mascherata, in tutta questa farsa che si chiama “democrazia italiana”, dove il voto vale se consente al padronato di vedere al governo sempre e solo i suoi più alti uomini di fiducia un tempo divisi in due diverse scuole di pensiero sulla tattica da usare per garantire la grande finanza e il grande capitale, ora uniti nel nome della “defiscalizzazione” del lavoro e dell’attacco al salario.
Lo dicevo pochi giorni fa, discutendo della ricostruzione della sinistra in Italia: dobbiamo tornare a chiamare le cose col loro nome, gli eventi con i loro nomi, i partiti con le denominazioni geopolitiche gli spettano. Dobbiamo chiamare “capitalismo” il sistema economico e sociale in cui viviamo e “borghesia” la classe imprenditoriale.
Perché solo con uno specchio non deformato potremo riconoscerci per quello che siamo e per come viviamo e sopravviviamo in una realtà che ci vorrebbero far credere essere tutto tranne quello che è veramente.
MARCO SFERINI
12 maggio 2013