In Algeria, come in altri paesi colonizzati, la cinematografia nazionale si sviluppò solo dopo l’indipendenza. Prima di allora le uniche immagini del Paese erano quelle girate dal collaboratore dei fratelli Lumière Félix Mesguich (Algeri, 16 settembre 1871 – Parigi, 25 aprile 1949), poi autore nel 1898 della prima pubblicità della storia, pochi secondi in cui tre comici si esibiscono davanti ad un poster della Ripolin (marca di pittura).
Fino al 1957, in piena guerra d’indipendenza, il cinema era totalmente di produzione straniera, con una netta predominanza francese. Nello stesso anno, tuttavia, il regista René Vautier (Camaret-sur-Mer, 15 gennaio 1928 – Camaret-sur-Mer, 4 gennaio 2015) francese, ma che appoggiava il Front de libération nationale (FLN) e in seguito sosterrà con i suoi film le lotte degli operai, quelle contro il razzismo in Francia e l’Apartheid in Sudafrica, per la difesa dell’ambiente e contro il nucleare, al fianco delle femministe, iniziò a realizzare pellicole come documento della lotta di un popolo per l’indipendenza, nacquero così Une nation, l’Algérie (1955) e Algérie en flammes (1958). Il cinema divenne così una forma di comunicazione dell’esercito di liberazione. Ma solo dopo l’indipendenza, avvenuta nel 1962, si ebbe una produzione autonoma anche se alquanto scarsa, limitata e incentrata prevalentemente su documentari e cinegiornali.
Il successo internazionale ottenuto da La battaglia di Algeri (1966), una coproduzione italo-algerina diretta da Gillo Pontecorvo, attirò però l’attenzione di critica e pubblico su questa emergente cinematografia. Il primo film di un certo rilievo, nonché il primo lungometraggio di finzione del Paese, fu Rih al awras (Le Vent des Aurès – Il vento degli Aurès, 1965) del regista Mohammed Lakhdar-Hamina (M’sila, 26 febbraio 1934) successivamente autore di Chronique des années de braise (Cronaca degli anni di brace, 1975) vincitore della Palma d’Oro come miglior film al 28º Festival di Cannes (la prima assegnata a un film e a un cineasta del continente africano). Ma lo sguardo rimaneva sempre e solo al maschile fino a quando si cimentò dietro la macchina da presa la scrittrice Assia Djebar.
Fatima-Zohra Imalayène, questo il suo vero nome, nacque il 30 giugno 1936 a Cherchell, antica città romana sulla costa a ovest di Algeri, figlia di Tahar Imalhayène, maestro di scuola elementare coloniale, e Bahia Sahraoui, discendente di una famiglia aristocratica berbera. Il padre la introdusse nel regno della lingua scritta, la madre trasmise, invece, alla figlia il ricco patrimonio di tradizioni e cultura. Fatima era una privilegiata, mentre le coetanee erano velate e chiuse in casa, lei poteva studiare. Così dopo la scuola elementare e gli anni del collegio in Algeria, frequentò il liceo Fénélon a Parigi, per poi divenire, nel 1955, la prima donna algerina ammessa alla prestigiosa École Normale Supérieure di Parigi.
Ma la sua vita fu indissolubilmente legata alla storia del suo Paese. Nel 1954 scoppiò la guerra di liberazione degli algerini contro i colonizzatori francesi e Fatima non rimase indifferente. Nel 1956 partecipò allo sciopero generale degli studenti algerini e l’anno seguente pubblicò, a soli 21 anni, il suo primo romanzo “La soif” (“La sete”), per l’editore Julliard. Fu in quell’occasione, per non creare problemi alla famiglia, che assunse lo pseudonimo di Assia Djebar, nato durante un gioco in taxi col fidanzato.
Sempre nel 1957 lasciò la prestigiosa scuola per seguire il compagno Ahmed Ould-Rouïs, conosciuto nelle lotte studentesche e divenuto militante del Front de libération nationale, nella clandestinità. I due approdarono prima a Tunisi dove Assia, dalle colonne di un giornale locale, denunciò il dramma dei rifugiati algerini, poi a Rabat dove divenne assistente di storia all’università.
Nel 1958 sposò Ahmed e pubblicò il suo secondo racconto “Les impatients” (“Le impazienti”) che, come il precedente, vedeva come protagoniste, vere e proprie eroine femministe, che sfidavano i divieti imposti dalla società algerina alla condizione della donna.
Dopo la dichiarazione di indipendenza, avvenuta il 5 luglio 1962, Assia Djebar divenne titolare della cattedra di Storia moderna e contemporanea dell’Africa del Nord presso la Facoltà di lettere all’università di Algeri. Ma l’indipendenza non fermò la scrittrice che si autodefinì “femme en marche” (tranquilli, nulla a che vedere con Macron, che avrebbe detestato), nomade tra Algeria e Francia, e negli anni seguenti pubblicò: “Les enfants du Nouveau Monde” (1962), “Les alouettes naïves” (1967), “Poème pour une Algérie heureuse” (1969) e la sceneggiatura per il teatro “Rouge l’aube” (1969).
Nel 1977 Assia Djebar debuttò dietro la macchina da presa con il film La Nouba des femmes du Mont Chenoua (traducibile come La festa delle donne del monte Chenua). Ancora una volta l’Algeria vista attraverso un’ottica femminista. Nella pellicola una donna decide di tornare sulle montagne berbere del suo paese natale (Chenoua è una catena montuosa dell’Algeria) alla ricerca delle donne che combatterono la guerra d’indipendenza per ritrovare i “suoni della memoria strappata”.
Prodotto per la TV algerina, La Nouba des femmes du Mont Chenoua si aggiudicò il Premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia (più noto come “Premio della critica), riservato al cinema più “rischioso, originale e personale”. Il film della Djebar era tutto questo.
Rischioso perché, a causa dell’ambiguità del Partì Communiste Algerien (Partito Comunista di Algeria, PCA), dopo l’indipendenza si erano maggiormente radicate le forze nazionaliste e populiste islamiche che non apprezzavano troppo questa “esaltazione della donna”. Originale perché mischiava musica araba e dialoghi in francese, finzione e realtà (per la preparazione del film Assia raccolse le memorie delle donne contatine degli anni della liberazione). Personale perché mostrava, con sottile spirito indagatore, uno spaccato sulla condizione femminile dell’epoca. Capace di intrecciare l’Io individuale della narratrice al Noi collettivo delle donne del suo Paese.
La Nouba des femmes du Mont Chenoua fu uno dei più nuovi e stilisticamente elaborati film algerini degli anni settanta. La pellicola, inedita in Italia, è mal conservata, ma davvero ipnotica.
L’ascolto delle ferite, dei dolori e dei linguaggi, delle parole come dei silenzi, delle partigiane algerine segnò profondamente l’opera successiva della scrittrice. Nel 1978 realizzò La Zerda ou les chants de l’oubli (traducibile come La Zerda e i canti dell’oblio), un documentario in cui la regista partì dalle immagini degli archivi coloniali e dalla musica tradizionale, per dare voce ai popoli nord africani. Poesie, canti e grida di rivolta, arabo e francese, sono in contrappunto alla storia ufficiale, quello conosciuta in occidente.
Le rappresentazioni occidentali dell’Africa, dalla pittura alle cronache dei viaggi per arrivare ai film, costruirono, infatti, un’immagine falsata dei popoli africani. Il documentario della Djebar, a cui in seguito si sono ispirarono diversi artisti e cineasti africani, rovesciò la prospettiva dello sguardo colonizzatore fornendo un’Africa realistica. Di fatto il completamento de La Nouba des femmes du Mont Chenoua, come sostenne la stessa autrice.
La Zerda ou les chants de l’oubli (la zerda è una piccola volpe del deserto diffusa nel Maghreb) venne presentato ad Algeri nel luglio 1982 e l’anno successivo si aggiudicò il Premio speciale per il Miglior film storico al Festival del cinema di Berlino e inaugurò il Primo festival del cinema arabo a Parigi.
Nel frattempo, dopo anni di lotte fianco a fianco, Assia Djebar divorziò da Ahmed Ould-Rouïs per sposare il poeta algerino Malek Alloula. In questo periodo pubblicò racconti, romanzi e poesie, tradotti in molte lingue (in Italia pubblicati da Giunti e Il Saggiatore) tra gli altri “L’Amour, la fantasia” (1985) e “Ombre sultane” (1987).
Quando l’oscurantismo islamico fece irruzione in Algeria e la Djebar si allontanò definitivamente dal suo paese natale per trasferirsi negli USA, in Louisiana, poi a Parigi, e ancora a New York, ironia della sorte proprio pochi giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001. Continuò a scrivere, tra gli altri, “Loin de Médine” (1991), “Vaste est la prison” (1995), “Le blanc de l’Algérie” (1996), “Les Nuits de Strasbourg” (1997), “Femmes d’Alger dans leur appartement” (2002), “La femme sans sépulture” (2002), “La disparition de la langue française” (2003), ma non realizzò più film.
Considerata una delle più influenti scrittrici nordafricane, il 16 giugno 2005 fu la prima autrice del Maghreb a essere ammessa all’Académie française. Morì dieci anni dopo a Parigi a seguito di una lunga malattia, era il 6 febbraio 2015.
Scrisse in francese e non nell’arabo “colpevole” di essersi messo al servizio degli uomini, ma nonostante il suo impegno non si considerò mai una autrice militante, con l’eccezione di “Loin de Médine” in cui controbatté agli integralisti che stavano dando un’immagine caricaturale delle origini dell’Islam. Assia scrisse per smascherare le manovre di potere in nome della religione. Allora, come oggi, contro le donne.
redazionale
Bibliografia
“Dizionario del comunismo del XX secolo” a cura di Silvio Pons e Robert Service – Einaudi
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
Immagini tratte da
Immagine in evidenza immagine tratta dal sito wisemuslimwomen.org e Screenshot dal film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, foto 1 da corrieredellemigrazioni.it, foto 2 da it.wikipedia.org, foto 3 da editions-barzakh.fr, foto 4 Screenshot dal film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, foto 5 photobucket.com, foto 6 Screenshot dal film La Zerda ou les chants de l’oubli, foto 7 doppiozero.com.