Il sistema politico italiano si sta avviando, almeno nelle intenzioni dei suoi principali esponenti, verso elezioni legislative che alla fine si riveleranno un disastro.
Legge elettorale, tipo di schieramenti, contenuti programmatici, qualità del dibattito inducono a pensare che alla fine non si profilerà alcuna maggioranza plausibile e che la partecipazione al voto subirà un’ulteriore contrazione come già si è evidenziato in occasione della tornata di elezioni amministrative.
Ne uscirà, in ogni caso, un sistema mutilato nella sua capacità sistemica di interpretare e affrontare le più evidenti contraddizioni che percorrono la società italiana.
Del resto è stato disastroso anche l’esito delle ultime elezioni legislative francesi: laddove il sistema elettorale ha portato ad una clamorosa distorsione nel formarsi della maggioranza (una maggioranza assoluta ad un partito che alla fine rappresenta più o meno il 15% del corpo elettorale) dotando così il presidente neo – eletto di poteri straordinari in una situazione di vera e propria deprivazione della sovranità popolare (presidente neo – eletto che, tra l’altro, in nome della “modernità” sta compiendo le sue prime mosse in perfetto “stile Trump” aprendo una guerra commerciale con la Cina: alla faccia delle nuove “vie della seta”).
L’esito della fase elettorale italiana sarà disastroso soprattutto perché nessuno potrà usare efficacemente l’unica arma valida nel contesto dei confronti elettorali nel nostro Paese: il voto “contro” con la conseguente raccolta delle proprie truppe al grido di “Annibale alle porte”.
Analizziamo allora l’andamento delle elezioni italiane almeno dall’entrata in vigore della legge elettorale del 1993 mista tra proporzionale (25%) e maggioritario (75%) poi sostituita nel 2005 da una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione e sbarramento giudicata incostituzionale dall’Alta Corte con la sentenza 1/2014.
Ebbene, in questi 23 anni intercorsi dalle elezioni del 26 – 27 Febbraio 1994 e vinte dallo schieramento di centro – destra attraverso la duplice alleanza tra Forza Italia e la Lega al Nord, e tra Forza Italia e i neo fascisti al sud, l’esito del voto è sempre stato determinato dall’essere “contro”.
Il “vinavil” che ha tenuto assieme gli schieramenti è stato, da un lato, l’antico richiamo della foresta dell’anticomunismo ( evocato addirittura anche nell’occasione delle elezioni del 2013) e dall’altra parte la chiamata a raccolta anti – berlusconiana.
L’unico vero obiettivo indicato nel corso di questi 23 anni da uno schieramento politico è stato quello dell’ingresso nell’euro: rivelatosi alla fine una tragica beffa nel quadro di una disastrosa crisi economica internazionale e di un processo di impoverimento generale che non ha neppure portato alla proletarizzazione dei ceti medi ma soltanto allo sfibrarsi di un società senza bussola perché fondata ormai sull’individualismo consumistico.
Il confronto tra apparente centro – destra e altrettanto apparente centro sinistra avvenuto tra il 1994 e il 2013 ha rappresenta uno sfuocato retaggio dell’antico “bipartitismo imperfetto” nell’incapacità del sistema di realizzare sul serio il bipolarismo (una forzatura che ha incrinato del tutto l’equilibrio politico complessivo) fino alla pratica dimostrazione dell’incapacità di espressione di una maggioranza politica: dal 2011 in avanti il Paese è governato da formule di alleanza spuria con presidenti del Consiglio non indicati da alcun esito elettorale di riferimento e con il concorso di voti provenienti da entrambi i lati degli schieramenti presentatisi contrapposti al voto.
Ciò è avvenuto fino a ieri, allorquando cioè si è riformata al Senato una maggioranza da “ventre molle” che ha tagliato fuori, tra l’altro, una delle due parti contraenti il patto di nascita del PD: anzi la parte originariamente più importante numericamente e storicamente.
Un “ventre molle” o una “palude” (definibile in linguaggio ottocentesco “consorteria”) raccolta attorno al nodo della “questione morale” con evocazione nell’intervento di Gotor della massoneria geograficamente collocata proprio nella terra di origine della P2.
Progressivamente si era affermato e sta progressivamente svanendo un “terzo polo” fondato sulla semplice contestazione dell’esistente, e quindi anch’esso sul “contro”.
Un terzo polo quello rappresentato dal M5S che non ha fin qui dimostrato alcuna capacità di interpretazione sociale e di soggettività programmatica (agita peraltro attraverso improbabili slogan) e che incontra adesso tutta la difficoltà del non aver di fronte un plausibile “oggetto del contendere” se non richiamandosi ad espressioni verbali (quasi gergali) tratte dall’armamentario del vecchio Uomo Qualunque.
Il sedicente candidato premier di questo schieramento ha messo, tra i suoi riferimenti politici la DC, Berlinguer, Almirante: ed è solo un esempio di una situazione di grande confusione sotto il cielo, però sicuramente non eccellente.
Il fatto è che, indipendentemente dalla legge elettorale, non c’è più nessuno da contrastare: l’agognata coalizione da Calenda a Pisapia che Renzi vorrebbe mettere assieme non è provvista di alcun senso perché l’antiberlusconismo è evaporato nell’immaginario dell’opinione pubblica (anzi molti ormai lo considerano una parentesi che ha visto come protagonista una simpatica macchietta); il referendum istituzionale ha dimostrato come lo stesso Renzi, nonostante la truculenza verbale, si sia rivelato una fragile “tigre di carta”; M5S e Lega Nord non evocano certo baratri abissali e del resto appare molto improbabile che possano assumere livelli di potere rilevanti perché bloccati dall’inevitabile asse PD/Forza Italia.
Nel frattempo le residue forze politiche hanno smarrito pressoché completamente identità e radicamento sociale.
Sarebbe bene che l’occasione offerta dal proporzionale fosse utilizzata per cercare di recuperare proprio nella direzione dell’identità ideale, progettuale, programmatica: è questo un modesto consiglio da offrire alla sinistra per affrontare quella che sarà sicuramente l’ennesima fase di transizione che, per favore, sarebbe bene non chiamare III repubblica.
FRANCO ASTENGO
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