Certe notizie consentono di fare riflessioni approfondite su concetti apparentemente semplici, concetti che, ogni giorno, diamo per scontati, magari perché banalmente inseriti in mille contesti senza, appunto troppi perché.
Secondo la Corte suprema di Cassazione, Totò Riina avrebbe diritto ad una “morte dignitosa”, essendo gravemente malato da tempo. Ciò presupporrebbe il trasferimento dal regime detentivo ad altra condizione cautelare, per evitare che alle sofferenze fisiche e mentali si aggiunga la sofferenza “non indispensabile” del carcere, non sussistendo pericoli di fuga o di reiterazione dei reati.
Poiché parliamo non di un cittadino qualsiasi ma di uno di capi di Cosa nostra, di quello che in gergo viene definito “boss”, quindi letteralmente tradotto dall’inglese “grande capo”, la notizia della sentenza della Cassazione ha suscitato una ridda di polemiche.
Vorrei provare a soffermarmi non tanto sulla figura di Riina che ormai è consegnata alla storia di questo Paese ed a quella della Sicilia, bensì sul concetto di “dignità” inserita in un contesto morale e civile.
Che cos’è la dignità? A pensarci superficialmente è solo lo stato per l’appunto morale di una persona che viene riconosciuto alla medesima da molte altre: si è “dignitosi” e, quindi, degni di rispetto quando ci si è resi illustri in un determinato campo sociale: scienza, cultura, lavoro, pace, medicina, insegnamento, arte, filosofia, volontariato.
Evito di citare le professioni belliche perché rientrano in un tipo di “dignità” che non è più quella che aderisce alla mia morale, che è una morale antimilitarista, profondamente pacifica e anche pacifista.
Un fucile non ha dignità, un carro armato nemmeno e tanto meno un bombardiere. Il mercato delle armi è forse dignitoso? E’ una speculazione alimentata da altre speculazioni, da grandi giochi di potere che tentano con la guerra di prolungare profitti e accumulazioni dei medesimi quando non riescono a farlo con i valzer della politica condizionata da grandi banche, grandi indici borsistici, grandi poteri finanziari.
La dignità è, singolarmente presa, invece tutto ciò che accresce l’armonia sociale, che rende evidente la necessità di fare dell’essere umano un attore primo della crescita individuale e collettiva dentro un contesto di giustizia sociale.
Dunque è dignitoso favorire l’uguaglianza in tutte le sue forme e combattere le ingiustizie che fanno delle differenze delle penalizzazioni e, quindi, contraddicono la morale laica che promana dalla Costituzione repubblicana.
La dignità, singolarmente concepita, è la cittadina o il cittadino che seguono i dettami del consesso civile, del patto anche non scritto di rispetto dei limiti reciproci; la dignità, invece, collettiva può avere un nome bellissimo: repubblica.
La Repubblica è la forma della dignità complessiva di un popolo, quando questo popolo riconosce, di riflesso, che le istituzioni che lo governano non lo trattano come un insieme di sudditi ma lo riconoscono (così dice letteralmente la nostra Costituzione) come il depositario della sovranità, dei diritti civili e sociali, della delega permanente per un autogoverno che non è mai quello che dovrebbe essere perché chi lo dovrebbe esercitare assume funzioni dirigiste invece che condivisione delle medesime.
Purtroppo anche la Repubblica è una imperfezione che tenta di essere perfetta. Quella in cui viviamo, scrivevo pochi giorni fa, tutto sembra tranne che veramente una repubblica, una “res publica“.
Dunque la dignità è tutto questo. Tutto questo è incompatibile con le associazioni mafiose, con i morti ammazzati per le strade, con i bambini sciolti nell’acido, con i giovani come Peppino Impastato fatti saltare in aria con una bomba sulla ferrovia, con i crivellamenti fatti in strada contro prefetti dello Stato, contro altri boss mafiosi…
La dignità nella morte la si eredita dalla dignità che si è mantenuta in vita. Alla fine si muore sempre soli, nonostante si sia circondati da mille affetti. Quello è un passo che si compie senza l’aiuto di nessuno. Una soglia terribile per tutti: la fine dell’esistenza, l’andare oltre la consapevolezza dell’essere e dell’esserci. Il “non-essere” spaventa tutti. E’ umano. Ma molti “umani” non si sono fatti alcun scrupolo di negare questo passaggio naturale a loro stessi simili e hanno deciso che qualcuno doveva morire perché intralciava i suoi affari, perché denunciava le attività criminali sul territorio della Repubblica o perché trasmetteva con una radio il potere mafioso che si sostituiva alla legalità, alla Costituzione, alle regole del vivere civile.
La dignità nella morte la si eredita, dunque, dalla vita. E non è una sentenza di un tribunale della Repubblica che può riconsegnare la dignità a chi non l’ha mai avuta, a chi l’ha persa perdendo la sua umanità, smarrendola in una cloaca di cunicoli scuri dove la sotterraneità dell’odio assimilato al potere diventava in superficie guerra e disprezzo di qualunque vita gli si opponesse.
Di tutte queste storie di mafia, noi ricorderemo per sempre la dignità di Pio La Torre, di Peppino e Felicia Impastato, di Giuseppe Fava, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, di Giorgio Ambrosoli, di Piersanti Mattarella… E di tutti coloro che sono meno noti ma che la mafia l’hanno combattuta con coraggio, pagando prezzi altissimi, non potendo scegliere se morire pensando alla propria dignità.
C’è una sola sintesi per tutto ciò: un mafioso non ha alcuna dignità da rivendicare. La Repubblica italiana deve averla.
MARCO SFERINI
6 giugno 2017
foto tratta da Wikipedia