Alla vigilia dell’assemblea nazionale che lo incoronerà ufficialmente segretario del Pd, Matteo Renzi si ritrova a mettere toppe ai suoi stessi strappi: oggi dal palco dell’Hotel Marriott di Roma dovrà giurare con convinzione lunga vita al governo. Ieri suoi altalenanti giudizi sul voto anticipato sono finiti sui retroscena di stampa. Stavolta era la minaccia di non «reggere così» un governo per un anno ancora. «Così» era riferito alle clamorose gaffe del Pd sulla legittima difesa e sul ddl concorrenza: due provvedimenti lanciati e poi ripudiati, i parlamentari mandati allo sbaraglio e poi smentiti dallo staff del segretario.
Tutti segni inequivocabili di un timoniere incerto sulla tolda del Nazareno. Che adesso deve risolvere l’ennesima grana con i magistrati che si sono scagliati contro il testo del «grilletto facile»: «Questa iniziativa legislativa nasce da una sfiducia per il modo in cui i giudici applicano le norme esistenti», tuona il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, «in realtà i casi più eclatanti si sono conclusi quasi sempre con l’assoluzione».
Dai tempi dell’inchiesta Consip Renzi ha smesso di temere i moniti delle toghe. E tuttavia la norma approvata dalla camera è così pasticciata che difenderla sarebbe impossibile: del resto il segretario se l’era già rimangiata a due minuti dalla sua approvazione.
Un segno, come altri, di faciloneria. Ma soprattutto dell’insofferenza a rassegnarsi a un destino di candidato premier per un intero lungo anno fino alla scadenza della legislatura. Nella stessa condizione, ai tempi del governo Letta, Renzi «resse» due mesi. Stavolta deve accettare una lunga «coabitazione» con il premier in carica: il voto anticipato è impraticabile a meno di non mettere a rischio la sessione di bilancio. Dunque ieri l’ufficio stampa ha smentito l’insofferenza verso il governo, forse preoccupato di non cambiare trend ai sondaggi (il Corriere della sera ieri ne ha pubblicato uno che dà il Pd al 30,4 in leggera risalita rispetto ai 5 stelle).
Da oggi Renzi nel partito sarà persino più forte di prima: degli oltre 700 delegati della mozione della maggioranza, i renziani di stretta osservanza sono circa 490 (e circa 90 franceschiniani, 65 area Martina e 60 Giovani turchi), contro i 212 di Andrea Orlando e gli 88 di Michele Emiliano. Nella direzione Renzi potrà contare su 140 voti contro i 24 del Guardasigilli e i 12 del presidente pugliese.
Ieri circolavano ipotesi di offerte di collaborazione con le minoranze. Ma a casa Orlando regna lo scetticismo: fino a ieri sera zero telefonate. Anzi, aver fatto sapere che la presidenza del partito resterà a Matteo Orfini, capo dei «duri» del Nazareno, sembra esattamente un segnale in direzione opposta alla collaborazione. La volta precedente fu Renzi a offrire allo sconfitto Gianni Cuperlo la presidenza; e Orfini quello che aveva convinto lo sventurato ad accettare. Oggi fra i delegati di Orlando c’è chi ha propone persino di non votare l’ex compagno di area turca. Frena Orlando: «Non faremo come Bersani e Speranza, ma se una cosa non va, la diremo». Il Guardasigilli concentrerà i suoi affondi sulla legge elettorale e sulle alleanze a sinistra. Difficile che accetti un ingresso in segreteria, organo che peraltro nell’era Renzi non ha mai contato molto.
Ormai il Nazareno è una piccola bulgaria. Il braccio destro Maurizio Martina sarà il suo vice segretario; nelle ultime ore sale l’ipotesi di Lorenzo Guerini che resta al suo posto, quindi come altro vicesegretario e uomo di garanzia di Area dem. Ma anche vicinissimo a Renzi.
Nonostante questo, Renzi oggi nel suo discorso giurerà fedeltà al governo. Anche perché il 27 maggio il premier Gentiloni sarà l’ospite del G7 di Taormina, fra gli altri in Italia arriverà Donald Trump alla prima volta da presidente Usa. L’inquilino di Palazzo Chigi non può arrivare a quella scadenza con una poltrona traballante. E il Pd non può apparire come il suo agente destabilizzatore.
DANIELA PREZIOSI
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