Il decreto Minniti-Orlando entra definitivamente nell’ordinamento giuridico italiano. In 53 giorni da quando il ministro dell’interno e quello della giustizia hanno firmato il nuovo rito processuale riservato ai richiedenti asilo, che prevede un grado di giudizio in meno e riduce le garanzie in prima istanza -, e aggiunge la riapertura e moltiplicazione dei Cie (con un altro nome) per velocizzare le espulsioni – il parlamento ha detto sì. Questa mattina l’ultimo passaggio, ormai solo formale, alla camera. Una doppia fiducia nei due rami del parlamento che ha impedito ogni dibattito su una misura che è però epocale: l’Italia accede al principio che per una categoria di persone, i migranti che chiedono la protezione internazionale, è possibile prevedere un diritto speciale. Attenuato. Se ne occuperà la Corte costituzionale.
Sono in dodici nell’aula di Montecitorio quando comincia la discussione sulla fiducia, compresi il presidente di turno dell’assemblea, una stenografa e il ministro Minniti. Il ministro se ne andrà quasi subito, sostituito da due sottosegretari a staffetta. Convintissimi solo i deputati che si pronunciano per il No. Tutti quelli a destra che avrebbero voluto misure ancora più drastiche. I 5 Stelle, secondo i quali «quando si parla di immigrazione, la verità è una sola: il nostro paese non riesce a fronteggiare questo fenomeno». E Sinistra italiana-Possibile, che giudica il decreto «uno spot che però introduce gravissimi precedenti nella nostra cultura e prassi giuridica». Assai meno convinti i sostenitori del provvedimento, almeno quelli non iscritti al Pd che parlano tutti di «fiducia sofferta», «a malincuore» e «metodo sbagliato», «confronto impossibile». Alla fine sarà la fiducia più magra alla camera del governo Gentiloni (lo stesso record negativo registrato nel passaggio al senato, due settimane fa). Appena 330 sì, quaranta voti sotto la maggioranza teorica.
Eppure non è mancato il sostegno dei bersanian-dalemiani fuoriusciti dal Pd. E per questo si è diviso il nuovo gruppo Mdp-articolo 1. Gli ex Sel (i deputati che non hanno aderito a Sinistra italiana) hanno negato la fiducia non partecipando al voto, con qualche eccezione. Gli ex Pd, con qualche eccezione anche loro, hanno deciso di non negare l’appoggio al governo, spaventati dalla propaganda renziana che li presenta come una forza di inaffidabile opposizione. Si ritroveranno stamattina, nel giudizio sul merito del provvedimento – alla camera è previsto il doppio passaggio – dove tutti voteranno no. Salvo l’eccezione di chi non parteciperà al voto.
«C’è un oggi e c’è un domani», ha detto (ieri) il deputato di Mdp Fossati parlando a nome del gruppo. Fuori discussione l’appoggio degli ex Pd a Gentiloni, e così in una riunione convocata subito dopo Bersani ha chiesto ai nuovi compagni di sinistra di non evidenziare troppo il loro dissenso. Quindici deputati ex Sel hanno così evitato di rispondere alla chiama per la fiducia, mentre due (Duranti e Sannicandro) non hanno rinunciato al loro no. Uno invece, Kronbichler, ha votato sì, come il resto dei componenti del gruppo, gli ex Pd, salvo Epifani e Formisano che non hanno risposto. In definitiva una spaccatura a metà.
Nel frattempo Laura Boldrini, che con Pisapia anima la sinistra ponte tra Mdp e Pd, ha espresso riserve sul decreto, compatibilmente con il ruolo di presidente dell’aula. «Le associazioni temono che possa essere lesa la fruibilità del diritto di asilo – ha detto – in fase di applicazione bisognerà verificare». E poi ha aggiunto che «è giusto dire che l’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione, ma mancando le risorse la frase di Minniti resta un principio senza seguito coerente». Il decreto in effetti prevede la creazione di sezioni specializzate in 26 tribunali per le cause sul diritto di asilo, ma senza costi aggiuntivi per l’assunzione di nuovi magistrati o cancellieri né per la formazione. Prevede stanziamenti invece per i voli di riaccompagnamento degli espulsi e l’assunzione di altri carabinieri per le sedi diplomatiche in Africa.
ANDREA FABOZZI
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