Attualità del comunismo. Intervista a Balibar

L’intervista, in vista della della C17 – Conferenza di Roma sul comunismo, che si tiene a Roma dal 18 al 22 gennaio, è stata pubblicata nell’inserto speciale de il manifesto “I 100 anni che sconvolsero il mondo”, giovedì 12 gennaio 2017

Étienne Balibar interverrà alla Conferenza di Roma sul comunismo, il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc Atelier Autogestito) su «Poteri comunisti». Essendo tra i filosofi marxisti più noti e autorevoli del dibattito europeo contemporaneo relativo ai temi della cittadinanza e della democrazia, abbiamo deciso di intervistarlo al fine di anticipare alcune delle questioni più salienti che verranno affrontate durante la conferenza romana.


La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su questo si è aperta una delle grandi questioni del comunismo (centrale nel dibattito marxista novecentesco e nella storia dei paesi socialisti), quella relativa alla nozione stessa di transizione. Lei ha osservato in La filosofia di Marx che lungi dall’esserci in questi una visione evoluzionistica, la “transizione” intravista è invece «una figura politica della “non contemporaneità” del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto, ad una molteplicità di processi, alla stessa rottura rivoluzionaria a risiedere uno dei punti vitali del comunismo oggi?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie religiose e rivolte sociali. Marx stesso aveva inizialmente praticato con convinzione le utopie associative romantiche, che rispondevano alla rivoluzione industriale con progetti di riorganizzazione della società ispirati a principi di uguaglianza e razionalità, dove il denaro era abolito, ma pensò poi che si potesse dare fondamento scientifico alla speranza comunista, iscrivendola nella linea dell’evoluzione storica come il «modo di produzione» dell’avvenire, che avrebbe necessariamente condotto una società fatta di classi verso la società senza classi. Perciò l’idea di “transizione” ha un ruolo cruciale nel suo pensiero e in quello dei suoi successori. Questo sia in senso lato, per cui tutta la storia si configura come una grande transizione verso il comunismo realizzata attraverso la lotta di classe, di cui il capitalismo è la forma ultima; sia in senso più ristretto, per cui all’interno della transizione dal capitalismo al comunismo le «contraddizioni» del capitalismo devono esprimersi in forma violenta e trovare la loro «risoluzione», rendendo quindi proprio la transizione il luogo per eccellenza della politica. E tuttavia la politica, in questo senso, non avrebbe altra funzione che quella di realizzare una tendenza predeterminata; perciò l’idea di alternativa è intesa in questo caso in un senso debole. Nella formula che lei cita, ho provato a cercare in Marx degli elementi (e ce ne sono) che contestino questa forma di evoluzionismo fondamentale, con l’intento di restituire alla politica quella dimensione di incertezza e di creatività che le è propria e volendo concepire l’alternativa come un bivio più che come un punto di arrivo. Ho cercato in questo modo di avvicinare Marx alle prospettive rivoluzionarie attuali, che vanno al di là del fallimento catastrofico di quel “comunismo evoluzionista” incarnato dalle esperienze socialiste del XX secolo.

«Cambiare il mondo» per «trasformare noi stessi». In questa formulazione è contenuto il nocciolo di ciò che desiderano i comunisti, a partire da uno degli aspetti più importanti della questione comunista, ovvero la dimensione plurale del pronome, l’impegno in comune per il “comune”? D’altra parte, non è proprio in questa formulazione ad essere presente il contenuto del nuovo materialismo fondato da Marx, a partire dalla riflessione marxiana legata alla “produzione di soggettività”?
La ringrazio di aver interpretato in senso forte quel “noi” presente nel mio enunciato, che aveva un valore generico e autoreferenziale. Sono d’accordo a presentare le cose in questo modo, a condizione però di fare due precisazioni. La prima è che il comunismo di Marx non ha mai messo unilateralmente l’accento sul tema del “comune” e della “comunità” a scapito dell’individualità. È proprio questo che lo distingue dai romantici e dai nostalgici delle società precapitalistiche, in cui l’individuo era direttamente soggetto alla totalità (almeno per come l’antropologia borghese si figura queste società).

L’uso alienante che il capitalismo fa dell’individualismo (peraltro oggi aggravato ulteriormente dal discorso neoliberista e dalla sua estremizzazione del modello della concorrenza universale tra gli individui) conduce inevitabilmente i comunisti a valorizzare il “comune”, ma Marx cerca una formula esistenziale per cui – come dice il Manifesto comunista – lo sviluppo di ognuno è condizione della comunità e vice versa. La seconda precisazione è che io intendo attribuire un senso forte all’espressione «desiderio comunista». Il desiderio comunista è il motore dell’impegno comunista, senza il quale non esiste politica comunista. È un desiderio in un certo senso irrealizzabile, perché infinito, ma è possibile concepirlo in modo «materialista», non tanto sottoponendolo a condizioni (come farebbe un materialismo volgare), ma introducendo al suo interno il desiderio delle proprie condizioni, riassunto in forma allegorica dall’espressione «trasformare il mondo». Questo distingue il desiderio comunista dal desiderio cristiano, da un lato, che aspira all’«uomo nuovo» investito dalla grazia, e, dall’altro lato, da quel desiderio nietzschiano ben riassunto da Foucault nella formula della «cura di sé» (benché Foucault non abbia in effetti ignorato in modo puro e semplice la questione delle condizioni, il suo “noi” è più un “noi stessi” che rende autonomi gli individui che un “noi tutti” che agiamo e pensiamo insieme).

Le immagini del comunismo e della via al comunismo sono moltissime, tra esse Althusser come lei stesso ha osservato scelse quella presente nell’Ideologia tedesca, la più materialistica: il comunismo come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». È anche la sua immagine?
Torniamo al problema di poco fa: questa formula magnifica è soggetta al rischio di essere interpretata in modo evoluzionistico (non senza un fondamento teologico), per cui il comunismo sarebbe il senso ultimo della storia, e la storia la via maestra del comunismo… Per fortuna (come accade spesso alle grandi formulazioni filosofiche), la frase è equivoca. Con essa si sgombera il campo da un’interpretazione del comunismo come semplice idea regolativa, e si afferma l’«immanenza» del comunismo alle lotte del presente e alle trasformazioni che queste ultime producono nella società e nei suoi attori. Si potrebbe anche leggerla in questo modo: il comunismo è una potenza che si attualizza nella storia, senza alcuna “fine” determinata.

Nel contesto attuale, di attacco feroce alla democrazia, ne è possibile una ri-significazione (se non proprio re-invenzione) a partire da conflitti agiti in nome di rinnovate istanze di égaliberté, da parte di soggettività per dir così eccedenti? È l’insurrezione a essere nuovamente la modalità attiva della cittadinanza, intendendo quest’ultima come una pratica di soggettivazione politica e un terreno di lotta incessante?
Quello che mi sembra importante nella proposizione dell’egalibertà è il fatto che si tratta di un’idea fondamentalmente borghese (o “civico-borghese”), che ha però al suo interno un’imprescindibile dimensione rivoluzionaria, insurrezionale, eccedente (o “iperbolica”). Ecco perché l’egalibertà torna in primo piano ogni volta che forme di resistenza e invenzioni emancipatrici entrano in conflitto con modalità istituzionali fondate sulla dominazione di classe (o, più in generale, su una gerarchizzazione sociale). Ma la questione del rapporto genealogico e dialettico tra l’idea borghese di insurrezione e le forme della politica comunista non è semplice, per Marx (che ha creduto di risolverla con lo schema della «rivoluzione permanente») come per nessun altro comunista. Detto questo, le circostanze comportano a volte semplificazioni strategiche: la «postdemocrazia» che si sta sviluppando oggi sotto il nome di governance è talmente antitetica rispetto a qualunque idea di cittadinanza attiva che già iscrivendo la politica sotto il segno di questa tradizione borghese si ottiene un effetto sovversivo e insopportabile per l’ordine costituito. Ma non penso che questo sia sufficiente, perché l’egalibertà parla di diritti e di capacità, individuali o collettivi, e questo non basta a determinare ciò che prima abbiamo definito “desiderio comunista”. Perciò, in questo senso, l’egalibertà va a caratterizzare una soggettività soltanto astratta.

Politicamente, dove si indirizza lo “sforzo”, nel senso del conatus spinoziano, dei comunisti? Aspetto storico e aspetto profetico come si tengono insieme? E, infine, è l’organizzazione ancora una questione centrale del comunismo?
Beh, ecco che entriamo nel vivo delle più interessanti convergenze e divergenze tra i vari teorici del “postmarxismo” contemporaneo. Tutti si rifanno a Spinoza (o comunque moltissimi), ma non tutti lo leggono allo stesso modo. Per parte mia, non vedo difficoltà a interpretare il conatus nel senso di quell’«attualizzazione della potenza nella storia» senza una fine predeterminata di cui si parlava poco fa partendo dall’Ideologia tedesca. Sarei anche tentato di parafrasare una celebre formula di Derrida dicendo che abbiamo a che fare con un «profetismo senza profezia», o senza altra profezia che quella data dal proprio “sforzo”, dall’incremento della propria potenza di agire e della propria autonomia. Il riferimento a Spinoza è utile anche perché spiega molto bene che i movimenti di massa hanno bisogno di una profezia carica di immaginario, quindi più ambivalente. Non esiste politica senza immaginario di massa, e non sarà certo la storia del comunismo a dimostrare il contrario.

Le nostre divergenze più forti sorgono sul tema dell’organizzazione. Io ho affermato che il conatus spinoziano è «transindividuale», Negri ha detto che il suo soggetto è la «moltitudine». Io ne ho tratto la conclusione che in Spinoza – come in Marx e in Lenin, anche se con altri obiettivi – la politica è sempre organizzata, ha bisogno di mediazioni istituzionali; mentre per Negri essa deve mantenere un che di “selvaggio”, nel quadro di un’opposizione radicale tra autonomia e organizzazione. Si tratta di una divergenza politica, ma anche profondamente metafisica: a me interessa più lo Spinoza intellettualista, a lui quello vitalista. Ma ciò non ci impedisce di fare tante cose assieme…

L’orizzonte di un «diritto alla differenza nell’uguaglianza» ha come obiettivo un’uguaglianza che non è neutralizzazione delle differenze, bensì «la condizione e l’esigenza della diversificazione delle libertà», come lei ha scritto. Il comunismo come può “stare” a questa riflessione (legata peraltro alla concezione blochiana del multiversum)?
È proprio su questo tema che si potrà pensare una transizione da una concezione “rivoluzionaria borghese” dell’uguaglianza a una concezione “comunista” (anche se questa non è esattamente un’esigenza marxiana, ma piuttosto di Fourier). Si deve precisamente passare dall’altro lato dell’equazione, ossia a una concezione della libertà che sovradetermina l’uguaglianza. La libertà borghese è universale, quindi universalizzabile, ma non è veramente differenziale. Cioè la rivolta che produce è all’insegna del diritto comune degli esseri umani a non essere discriminati per le loro differenze antropologiche: lo si vede benissimo in autori come Olympe de Gouges, Mary Wollstonecraft o Frantz Fanon, come ho provato a dimostrare nel mio libro Cityoen Sujet. Ma questa libertà borghese si astiene dal fare positivamente di queste differenze e del loro libero gioco il contenuto e, per così dire, la tessitura ontologica dell’uguaglianza. Includere l’affermazione delle differenze all’interno dell’idea di comunismo non è un gesto filologico ma performativo: una forzatura del significato tradizionale di comunismo che tende ad adattarlo alla nostra concezione dell’universalismo. Storicamente, alcuni comunisti hanno abbozzato questo gesto, primo fra tutti Bloch, io credo. E tuttavia il multiversum non è un tema che l’autore sviluppa molto; è stato più che altro Remo Bodei a presentarlo come una nozione centrale della filosofia blochiana, e devo in effetti a quest’ultimo la possibilità di aver sviluppato a mia volta la questione.

RED.

da il manifesto.info

foto tratta da Pixabay

categorie
Comunismo e comunisti

altri articoli