Col conto alla rovescia per la transizione ormai agli sgoccioli, Barack Obama è andato davanti alle telecamere per l’ultimo discorso alla nazione. L’America ha un rapporto intenso coi propri presidenti – e con la sacralità dell’incarico che prevede la transustanziazione dei leader in figure «storiche».
Il farewell address è quindi un rito imprescindibile che sotto le spoglie di facilitare il trasferimento del potere dovrebbe, deve servire a definire la legacy, il lascito politico di chi lo pronuncia.
Quello di Obama è stato indirizzato agli stati più disuniti forse dai tempi della guerra civile, un paese come non mai in deriva identitaria, sulla soglia di una inedita ed inquietante incognita nazionalpopulista. Un panorama in cui sono a confronto concezioni visceralmente opposte di politica e della stessa dialettica, più conforme ormai allo scambio della vigilia fra Meryl Streep sul palco dei Golden Globe e la raffica di insulti twittati da Trump, che non all’eloquenza dei grandi discorsi.
Il compito di Obama è stato quindi quello arduo di rispettare il galateo della transizione ordinata senza però normalizzare una svolta predicata sulla «vittoria di una minoranza» e che di normale ha ben poco. Ha ovviamente voluto difendere il proprio operato ma allo stesso tempo cercato di delineare il futuro politico del suo partito dopo il catastrofico fallimento della candidatura Clinton.
Dal pulpito della «sua» Chicago Obama si è rivolto così a una folla di supporter impersonando sia il comandante sconfitto con onore che il possibile futuro condottiero di un partito che non mostra di aver ancora metabolizzato la batosta elettorale.
Per tradizione i discorsi di addio si prestano a insolite dosi di candore da parte dei presidenti uscenti che non hanno «più nulla da perdere». Il più celebre in questo senso rimane probabilmente quello di Dwight Eisenhower, il generale repubblicano che nel 1960 avvertì dell’effetto pernicioso di un «complesso militare industriale» votato all’autoperpetuazione.
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LUCA CELADA
foto tratta da Pixabay