Ci sono piccole parole che assumono grandi significati nel contesto in cui sono collocate. Negli accordi sindacali le parole hanno una loro storia, spesso alcune sono il lascito di duri conflitti.
Nel contratto dei metalmeccanici, nell’articolo sul premio di risultato aziendale, era scritto che che quel premio sarebbe stato ANCHE totalmente variabile. Quell’avverbio, anche, era il frutto di una notte di aspre discussioni nella delegazione trattante il rinnovo del contratto nel luglio del 1994. Ricordo che Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom, venne in riunione portando un testo nel quale si diceva solamente che il premio aziendale sarebbe stato totalmente variabile. Voleva dire che il salario contrattato nell’impresa sarebbe stato completamente volatile, aleatorio si diceva allora, un giorno c’era, l’altro poteva sparire. Contestai duramente quel testo e inizialmente con Sabattini la discussione tracimò in un pesante litigio. Ma Claudio Sabattini era un grande sindacalista, che usava tutto per alzare il prezzo con la controparte, compresi i dissensi in delegazione. Quindi egli tornò in trattativa e usando spregiudicatamente con la controparte la “rivolta” dei suoi, riuscì a strappare quell’anche. Grazie a quella piccola parola per 22 anni, ovunque fosse possibile, i metalmeccanici hanno strappato alle aziende una quota di aumenti fissi, cioè salario vero che non spariva col cambio di stagione. Ora un semplice tratto di penna cancella la parola “anche” dal nuovo contratto dei metalmeccanici, appena sottoscritto da FIMFIOMUILM, e così il salario aziendale viene abbandonato alle più assurde variabilità dei mercati, fino ai capricci delle direzioni aziendali. Una storia ventennale di vertenze che avevano costituito la stessa identità contrattuale della FIOM, viene eliminata.
La stessa sorte tocca agli aumenti del contratto nazionale. Nel 2001 la Fiom subì il primo di una serie di accordi separati, proprio perché non accettò di rinunciare al principio secondo il quale le retribuzioni dovevano crescere anche oltre l’inflazione programmata. Anche in questo caso contavano molto le parole. L’accordo interconfederale del 23 luglio 1993, complessivamente assai negativo, non chiariva però se gli incrementi di produttività dovessero essere retribuiti solo a livello aziendale, o anche nel contratto nazionale. La Fiom si battè per quindici anni per questa seconda interpretazione, rivendicando per il contratto nazionale il potere di aumentare le paghe di tutti i lavoratori. Fim e Uilm si schierarono invece con la interpretazione restrittiva della Confindustria. A volte ci furono accordi separati, altre però, come nel 2006, ebbe successo l’ interpretazione della Fiom, con accordi salariali veri. Ora il contratto del 2016 sopprime il contenzioso, dando completamente ragione, con gli interessi, agli industriali.
È lo stesso concetto di aumento delle retribuzioni che viene eliminato dal contratto nazionale. Trenta anni fa la Confindustria ed il governo Craxi combatterono la scala mobile dei salari , che aggiungeva i suoi aumenti a quelli del contratto nazionale. Basta con gli automatismi, dicevano loro e non solo loro, bisogna contrattare tutto. Ora invece una scala mobile povera e truccata sostituisce gli aumenti del contratto nazionale. I 51 euro lordi dell’aumento triennale, circa 9 euro netti mensili al mese in ragione d’anno, sono in realtà l’anticipo di un meccanismo automatico. Agni anno sindacati firmatari e Federmeccanica si incontreranno e registreranno l’incremento dei prezzi calcolato con l’indice IPCA, depurato del peso sull’inflazione delle importazioni. Per capirci se il petrolio aumenta la busta paga non deve tenerne conto. Proprio per questo nel 2009 tutta la Cgil rifiutò di sottoscrivere un accordo confederale che adottava l’IPCA come base per i contratti. Ora il contratto dei metalmeccanici istituzionalizza proprio il sistema definito in quell’accordo separato.
Nel contratto nazionale non si aumenta più il salario, ma semplicemente lo si adegua ai miseri indici IPCA, lì non c’è più nulla da contrattare. Per maggiore vantaggio delle imprese, poi, questi adeguamenti retributivi assorbiranno le retribuzioni aziendali, con la sola esclusione dei premi totalmente variabili. Questo vuol dire che se in futuro i lavoratori di una fabbrica dovessero rivendicare e ottenere un aumento per tutti, questo aumento dovrebbe scontare i 51 euro del contratto nazionale. Se poi un lavoratore dovesse ottenere un premio individuale, anche da questo verrebbe sottratta la quota contrattuale nazionale. Nel passato faceva cosi la IBM, che assorbiva gli aumenti del contratto nazionale, e la FIOM si è sempre battuta contro questa sua pratica, che nei fatti annullava il senso stesso del contratto. Ora il modello IBM viene esteso a tutti i metalmeccanici, una parte crescente dei quali dovrà abituarsi nei prossimi anni ad avere incrementi retributivi zero dal contratto nazionale. È il concetto del contratto nazionale “cornice”, una cornice senza quadro dentro, rivendicato da sempre dalla Confindustria e rilanciato potentemente dalla lettera Draghi Trichet del 5 agosto 2011.
Attenzione però, qui è necessario un chiarimento di fondo. Nel contratto appena sottoscritto non si assegna un ruolo privilegiato alla contrattazione aziendale al posto di quella nazionale, ma semplicemente si affida più potere all’impresa al posto di entrambe. Non si contratta di più in azienda, ma si ubbidisce di più.
Nel contratto nazionale del 1998, anche qui dopo duri scontri, la Fiom ottenne che i sabati di lavoro supplementare fossero contrattati con le rappresentanze aziendali. Con il nuovo contratto l’azienda decide e basta, beffardamente assegnando al sindacato il compito di trovare i giorni giusti per fare eventuali riposi di recupero del lavoro in più fatto. Persino i permessi della legge 104, per assistere i parenti malati, dovranno essere programmati: o quei parenti adegueranno la loro malattia ai cicli del mercato, oppure dovranno arrangiarsi.
Orari, turni, ritmi e condizioni di lavoro, è tutto in mano all’impresa che accresce i suoi poteri sul lavoratore, compresa la sua qualificazione professionale, anche perché il nuovo contratto si appresta ad accogliere il demansionamento prescritto dal Jobsact. E se ai lavoratori venisse voglia di ribellarsi? Il nuovo contratto pensa anche a questo, affidando ai firmatari il compito di applicare l’intesa confederale del 10 gennaio 2014, alla quale la Fiom si era opposta, in particolare per le sanzioni verso chi non rispetta gli accordi. Qualcuno potrebbe ricordare l’intesa separata della Fiat di Pomigliano nel 2010, che Marchionne impose ai lavoratori minacciando la chiusura dello stabilimento. Ora i principi di quel diktat vengono applicati a tutti i metalmeccanici. Che perdendo ogni diritto ad una vera contrattazione vengono, miseramente, compensati, con buoni spesa e pensioni e sanità private.
I buoni spesa (Coop, Auchan, Ikea, chi farà l’affare?) pari a 150 euro all’anno, pomposamente chiamati benefit come i lauti premi dei manager, sono una mancia data al posto degli aumenti salariali che una volta si ottenevano nei contratti. Nulla in contrario quando simili elargizioni si aggiungano alla retribuzione, ma quando la sostituiscono allora è regressione profonda. I buoni spesa sono solo la versione contrattuale dei voucher.
Altri soldi, anche qui al posto dl salario vero nella busta paga, le imprese li verseranno sul fondo previdenziale integrativo e su quello sanitario, quest’ultimo istituito con il precedente contratto separato, anche per questo allora rifiutato dalla Fiom.
È un business di miliardi che vanno a banche ed assicurazioni e che soprattutto non vanno all’INPS e alla sanità pubblica, un’altra picconata allo smantellamento dello stato sociale.
In conclusione il nuovo contratto dei metalmeccanici è un perfetto esempio di politica liberista: si riducono i diritti veri su salario, orario, condizioni di lavoro, e li si compensa con mance e promesse. E con tanta burocrazia. Qui troviamo il ruolo dei sindacati firmatari, che, abbandonata la vera contrattazione, vengono cooptati in una pletora di commissioni, gruppi di lavoro, attività comuni e affari con le imprese. È il sindacato complice di cui parlava nel suo libro verde il ministro del lavoro di Berlusconi, poi fan di Renzi, Maurizio Sacconi. Il sindacato di mercato lo definiva nel passato la Fiom quando lo ha combattuto.
Ora Maurizio Landini porta la Fiom ad aderire completamente al modello sindacale che ha sempre contrastato e lo fa per la via maestra della sottoscrizione del peggiore, umiliante, contratto nazionale dei metalmeccanici. E non mi si venga a dire, come al solito, che non c’erano alternative. C’è sempre un’alternativa alla resa, soprattutto quando essa rischia di compromettere il futuro di milioni di lavoratori, con un contratto che riscrive in peggio tutte le regole. Un contratto che applica alle relazioni sindacali e di lavoro i principi della controriforma costituzionale appena bocciata.
Questo ci dice quanto ci sia da fare per riconquistare i diritti costituzionali da tempo inapplicati e quanto sia necessario liberare il nostro campo da chi quei diritti verbalmente li proclama, ma nella pratica li affonda.
GIORGIO CREMASCHI
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