Bertolt Brecht lo avrebbe definito un “indispensabile”. Uno di quegli uomini che nella vita lottano sempre, che dedicano la loro esistenza ad una causa, a quella causa che si chiama comunismo, cioè giustizia sociale, uguaglianza, pace e libertà.
Parole che danno il senso ad un non senso, all’incomprensione del nostro essere vivi, coscienti, capaci di critica, di dubbio, di analisi e di mille emozioni che ci attraversano in millanta altri momenti diversi che ci tocca subire o di cui siamo protagonisti.
E questi “indispensabili” non sono persone “grandi”. La grandezza eleva al di sopra degli altri nostri simili: è più che altro una mitizzazione che non serve ad altro se non a perpetuare le disuguaglianze come regola costante del nostro vivere. Ed invece ogni rapporto gerarchico e burocratico dovrebbe essere progressivamente abolito per arrivare ad una concezione veramente paritaria della vita sociale, della comunità globale.
Fidel Castro è morto alle dieci della sera del 25 novembre 2016. Suo fratello Raul, attuale presidente della Repubblica di Cuba, ne ha dato l’annuncio in televisione con un breve comunicato letto con emozione non nascosta. Evidente, palpabile.
Fidel Castro non era un “grande”, ma un “indispensabile”. Un rivoluzionario vero, intanto, perché una rivoluzione non gli si può negare d’averla fatta: insieme a Camillo Cienfuegos, insieme ad Ernesto Che Guevara.
Una rivoluzione che, in lui, parte come rivoluzione nazionale e che, proprio grazie all’impronta sociale, marxista e comunista del Che, diventerà il primo vero esperimento di applicazione di princìpi di socialismo nel primo territorio libero d’America.
Una storia di oltre cinquanta anni di cambiamenti che hanno impaurito giustamente quel mondo capitalista che pensava d’essere intangibile, non scalfibile da un avvocato e da un medico pronti a dare l’assalto al potere di Batista nei percorsi scoscesi, incerti e ben nascosti della selva isolana.
Ma la rivoluzione di Fidel non si ferma alla vittoria e all’entrata trionfante dei “barbudos” a L’Avana nel 1959: quella rivoluzione si offre al mondo, pronuncia parole di libertà per tutti i popoli e prova a radicarsi in patria.
L’indispensabilità di uomini come Fidel Castro stava proprio nel considerare l’affermazione di elementi e princìpi di socialismo a Cuba come un passo per dimostrare ai popoli del mondo che una alternativa al capitalismo esiste, può esistere e va ricercata sempre. Perché le ingiustizie sociali sono all’ordine del giorno, in tutto il mondo.
In un mondo che, a pochi chilometri dalla sua capitale, vede un miliardario diventare presidente degli Stati Uniti d’America e gli anticastristi di Miami festeggiare per la fine di una “brutta epoca”.
Verrebbe da dire con una battuta: “Sarà certamente bella quella di Donald Trump!”. Ma, appunto, è una battuta e non lascia che il tempo che trova.
Ciò che importa ora è capire quanto Cuba resisterà senza il suo Fidel, senza quel comandante in capo che era il padre di più di una generazione di popolo nata e vissuta sotto la sua presidenza.
Accerchiata dall’embargo della Helm-Burton (il “bloqueo”), apertasi con timide riforme ad un mercato che entra a far parte di una società con socialismo sempre meno tale e sempre più annacquato dalle infiltrazioni di un capitalismo pressante, Cuba non rischia di perdere chissà quale struttura burocratica del vecchio tipo di “socialismo reale”, ma bensì una serie di valori di uguaglianza e di rispetto comune, popolare, che ha assimilato dal 1959 in avanti.
La morte di Fidel può rappresentare la fine di un’epoca storica, auguriamoci che non sia l’inizio della fine della Cuba solidale, internazionalista, anticapitalista.
La politica riformatrice degli ultimi decenni ha consentito all’isola ribelle di mantenere la sua ribellione dentro ad un contesto di apertura ad un mondo che le ha teso la mano solo per interessi di varia natura: la Chiesa cattolica per estendere nuovamente il suo primato religioso e politico; le aziende di molti paesi per ottenere commerci e profitti.
Viviamo perennemente dentro a contraddizioni che dobbiamo gestire: Cuba si è trovata a dover gestire enormi conflitti tra ideologia, società e resto del mondo.
Fidel aveva compreso questa fragilità e aveva dato avvio ad un processo di attualizzazione dei valori che, senza essere negati, diventavano elemento di modernizzazione dentro ad un contesto privilegiato di relazioni sociali ben definite, non contaminate dallo spirito capitalista di accumulazione, dalla voglia di privatismo, dal ritorno di quell’egoismo personale che è alla fonte di ogni espressione del capitalismo in ogni parte del pianeta.
Cuba oggi è un po’ più sola. E lo siamo anche noi. Le comuniste e i comunisti di tutto il mondo perdono un indispensabile lottatore che, fino alla fine, ha fatto sentire la sua voce con lunghi scritti che ci parlavano del futuro di un pianeta destabilizzato nella sua natura, distrutto dall’economia di mercato e la cui unica speranza di vita insieme alla specie umana era proprio il superamento del capitalismo e l’affermazione di un modello sociale opposto a quello odierno.
A questo modello di società, a questa giustizia sociale, al comunismo, Fidel ha dedicato, come Che Guevara, tutta la sua vita. Almeno di questo, detrattori, adulatori e onesti compagni dategli atto. Avrà commesso errori dettati dalle contingenze dei momenti, ma sul piatto della bilancia della storia, l’assoluzione è duplice: per aver liberato Cuba dal dominio del capitale e per averci insinuato ancora una volta il bellissimo senso critico dell’alternativa possibile.
Addio, Fidel, ti sia lieve la terra.
MARCO SFERINI
26 novembre 2016
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