Nella ricorrenza (non casuale) della marcia su Roma “Il Giornale” annuncia la ripubblicazione, da domani, del “Libro nero del comunismo”, invenzione che negli scorsi suggellò l’operazione “diga anticomunista” per varie volte molto redditizia per la destra italiana.
Un’operazione subdola, quella tentata dal quotidiano milanese, perché assieme al testo appena indicato sarà diffuso il “Che Fare?” allo scopo evidente di tentare una manovra intesa nel mettere assieme (dal “loro” punto di vista) presunta fonte e presunto risultato quale sorta di causa ed effetto di quella che – sempre nella logica dei proponenti – viene – giudicata semplicisticamente una tragedia storica.
Tutto ciò sta per avvenire a distanza da qualche tempo dalla ripubblicazione, sempre per opera della stessa testata, del “Mein Kampf” di Hitler.
Da parte nostra non possiamo ignorare questi episodi: si tratta di rispondere denunciandone la strumentalità ma non solo.
Occorre ribadire con forza la necessità di considerarci ancora e a pieno titolo comunisti, intendendo l’idea comunista e il patrimonio teorico e politico accumulato in particolare dal comunismo italiano come uno strumento da utilizzare nell’attualità per costruire intelligenza, aggregazione, prospettiva .
Una realtà di presenza comunista da porta avanti all’interno di un raccordo a sinistra che è necessario portare avanti in dimensioni inedite rispetto al passato e al riguardo della profonda diversità nell’espressione delle contraddizioni sociali come sta avvenendo da un certo numero di anni a questa parte.
Non dimenticando anche, nel momento politico di più stretta attualità, il ruolo che i comunisti italiani ebbero nella costruzione dell’impianto antifascista della Costituzione Repubblicana che oggi s’intende superare per affermare, con le deformazioni costituzionali, principi di nuovo assolutismo e di riduzione nei margini di agibilità della democrazia repubblicana.
Ma il tema investe una realtà molto più vasta.
Sul piano generale sono però almeno 3 le ragioni per le quali si rende indispensabile rinnovare la presenza politica dei comunisti oggi:
1) Il tema della guerra e della nuova dimensione delle relazioni internazionali che sta fuoriuscendo dal quadro imposto dal processo che è stato definito di “globalizzazione”;
2) L’allargamento e l’intensificazione (odiosa) dei processi di sfruttamento nell’insieme dell’emergenza delle contraddizioni sociali in un quadro di mutazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura e nella necessità di individuare il punto effettivo di intreccio tra contraddizioni già definite materialiste e quelle fin qui considerate post – materialiste (consumo del pianeta, dominio di genere, pervasività nella vita comune ed esaltazione individualistica nell’utilizzo della tecnologia e del sistema della comunicazione di massa giunta ormai sul punto di sostituire interamente la struttura delle relazioni sociali);
3) L’evidente difficoltà che incontra lo schema classico della democrazia liberale nel suo rinserrarsi in schemi di concentrazione politica verticistica a fronte di una dimensione orizzontale dell’organizzazione sociale. Ne derivano espressioni di “governabilità” esclusivamente declamanti (il cosiddetto populismo) oppure totalmente separate dalle istanze sociali e obbedienti soltanto alle norme stabilite a tavolino da una tecnocrazia autolegittamentesi nella separatezza sociale.
Si tratta di affrontare questi temi affermando ancora una volta, pur nella dimensione della modernità, la convinzione che soltanto il processo storico potrà fornire una soluzione accettabile ad ampio raggio.
Siamo di fronte ad una crisi verticale delle espressioni di egemonia impostesi nella tumultuosa fase della fine del cosiddetto socialismo realizzato attorno al dominio sovietico.
Ecco perché l’interrogativo, la ricerca sulla nuova qualità delle contraddizioni sociali interessa necessariamente l’idea di un pieno ritorno in campo dei comunisti.
Una questione da affrontare, inoltre, proprio mentre appare in piena crisi la proposta riformistica di stampo socialdemocratico incappata nella crisi verticale delle espressioni di governabilità assunte negli ultimi decenni del XX secolo.
Saranno capaci i comunisti a tornare a toccare il cuore della strategia d’attacco dell’avversario?
Per riuscirci non basta definirsi anticapitalisti, occorre avere un progetto di società alternativa, un’ U-topia quale sorgente ideale per il concreto delle proposte e delle battaglie politiche.
L’interrogativo che mi sono posto resterà, comunque, tale anche alla fine dell’intervento perché non è possibile avere la pretesa di fornire, oggi come oggi, risposte minimamente compiute.
Un avvio di seria discussione è però praticabile e per questo motivo propongo un altro testo, anzi il brano di un altro testo contenuto nel libro di Lucio Magri “Il sarto di Ulm” uscito nel 2009.
La parte di brano che intendevo citare è questa: “ …il presupposto fondamentale della razionalità del modo di produzione capitalistico fu infatti l’esistenza di un sistema di bisogni autonomamente determinato, fondamento della razionalità della domanda e quindi del mercato. Tale autonomia è sempre stata parziale e problematica non fosse altro perché la priorità dei bisogni da soddisfare dipendeva dalla distribuzione del reddito, cioè da quali bisogni potevano tradursi in domanda effettiva.
E tuttavia finché la maggioranza dei bisogni primari restava da soddisfare, lo sviluppo produttivo aveva un sicuro punto di riferimento cui commisurarsi, e le politiche di accrescimento e di redistribuzione del reddito consumabili immediatamente si traducevano in un incremento del benessere individuale e collettivo.
Ormai però questo presupposto comincia a venire meno. Nel momento, infatti, in cui la capacità produttiva, almeno in alcune aree del mondo, travalica largamente i bisogni elementari, e l’apparato produttivo e l’organizzazione sociale diventano sempre più capaci di orientare il consumo e di formare bisogni nuovi, il benessere reale dipende dal fatto che gli individui e la società, avendo il reddito necessario, possono effettivamente riconoscere i loro bisogni e tradurli in consumo, e che gli individui e la società siano capaci di arricchire la qualità dei loro stessi bisogni.
Ma non è questa però la linea di tendenza oggi visibile nel “capitalismo postindustriale”.
Tutto al contrario la tendenza è di rendere la differenziazione veicolo dell’illusione, dell’effimero, di una serialità esasperata, di accentuare ancor di più la subalternità del consumo a imperativi esteriori e mutevoli, di perpetuare modelli di consumo elitari in una ripetizione di massa squallida e d’accatto.”.
Più avanti da queste considerazioni Magri tra anche alcune indicazioni operative: “ 1) la necessità di avanzare nuove e più ricche ragioni di critica al sistema; 2) la critica radicale del modo di produzione e di una certa struttura del potere”.
E ancora si chiede: “Non è questa (evidentemente la critica radicale del sistema N.d.A.) una base forte per un progetto e un’identità comunista radicalmente rinnovati ma non meno antagonisti?”
E’ questo l’interrogativo che dobbiamo porci oggi dopo averlo tenuto per tanti anni nel cassetto per sostituirlo con l’idea sbagliata di un possibile rifugio nell’autonomia del politico.
Ci siamo così ritrovati nel personalismo e in una colpevole subalternità rispetto all’identità dei cosiddetti “movimenti” mentre per l’avversario, come dimostra bene l’iniziativa del “Giornale” appena sopra riportata, il nemico resta sempre eguale, lo stesso: l’idea del comunismo intesa come pratica politica.
Il risultato è stato quello di produrre populismo e acquiescenza ai meccanismi di governo e del potere fine a se stesso.
E’ questo il punto sul quale è caduta, in Italia, la funzione e il ruolo dei comunisti: nell’incapacità di proporre una critica completamente alternativa e ben più radicale di quella del passato al sistema capitalistico e alle logiche di potere che lo sostengono.
Una critica di fondo annegata in un micidiale mix di massimalismo e di governismo che ha prodotto disastri sia sul piano culturale, della militanza, della raccolta del consenso.
Il punto da cui ripartire è quello della messa in discussione “dello sviluppo” e non della critica “nello sviluppo”.
La questione del “limite” rappresenta la tematica fondamentale per prefigurare un sistema nel quale le contraddizioni s’intrecciano e la lotta di classe ne esce rafforzata, completa, funzionale a un’identità complessiva e prefigurante una società alternativa e non una semplice “condizione diversa” per spezzoni adagiati in una sorta di neo-corporativismo.
Ed è questo un problema che riguarda sia i paesi a capitalismo maturo, sia quelli in una qualche misura ancora considerati “emergenti”.
Il quadro di guerra in atto e futuribile fa mutare comunque l’insieme del sistema di relazioni internazionali e ci indica, in ogni caso, l’esistenza di dimensioni nazionali molto diverse tra loro dal punto di vista dei sistemi politici sociali non unificabili sotto la generica insegna della “fine della storia” e non raggruppabili in generiche aggregazioni monetarie e commerciali (il problema della nazionalità del sovranismo, della sovranazionalità e dell’internazionalismo deve essere rideclinato anch’esso in maniera adeguata).
Il tema della guerra, infatti, non può essere affrontato senza prendere atto che è in corso un confronto diretto sul campo tra le due superpotenze.
Un conflitto che ha per posta la detenzione delle chiavi del possibile sviluppo futuro oltre la globalizzazione, in particolare rispetto alle fonti energetiche e alla loro diversificazione di ricerca e di utilizzo.
Tornando però all’essenzialità di questo discorso.
Nell’interrogarsi su quale identità comunista oggi appare essenziale la completa alternatività alla logica di uno sviluppo capitalistico indiscriminato, di non accettazione neppure parziale dei suoi postulati.
Nell’espressione piena di quest’alternatività ci stanno anche i temi dell’agire politico e della stessa presenza nelle istituzioni dei soggetti rappresentativi dell’alternativa.
Affrontare adesso questi temi, però, significherebbe spingersi molto avanti in un’elaborazione che ha bisogno, dopo tanti anni di assoluta trascuratezza, di essere ripresa partendo dalle giuste coordinate fondamentali.
Non servono soluzioni di per sé semplicisticamente politiciste.
Il comunismo inteso come volano delle idee e rinnovata proposta politica elaborando una nuova teoria delle contraddizioni dove il tema del limite e di diversi rapporti umani sotto l’aspetto delle etnie, del genere, dell’insieme delle relazioni di sfruttamento deve trovare nuova sistemazione sul piano del progetto e della proposta politica, ripensando anche a quanto ci viene imposto di modificazione nei rapporti a sinistra dalla già citata ed evidente crisi della socialdemocrazia a livello internazionale.
FRANCO ASTENGO
redazionale
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