E’ da un po’ di tempo che mi capita di leggere notizie che vengono pubblicate con strilli da prima pagina sia sulla carta stampata che sui siti Internet e che, invece, alla fine risultano essere soltanto la stanca, inesorabile conseguenza di politiche economiche privilegianti i grandi profitti e penalizzanti ogni ambito sociale residuale di questo disgraziato Paese.
Così, per l’appunto, oggi apprendo che “Gli italiani preferiscono la mamma. Il 67% degli under 35 vive a casa”: dove per casa si intende “con i genitori”, perché, si presume, che una casa l’abbiamo tutti (o quasi…).
Si sciorinano dati in quantità e si evidenzia come Italia e Slovacchia detengano primati simili in quanto a “mammismo” o, forse, in quanto a crisi economiche che costringono la pigrizia giovanile a staccarsi dal nido natio a diventare costante di vita e regolamento quotidiano di un adagiarsi su comodità che, nel bene e nel male, hanno una valenza necessariamente economica non derubricabile ad aspetto secondario della questione.
Della totalità dei giovani casalinghi e mammoni che, solo qualche anno addietro, sarebbero stati definiti “bamboccioni”, sembra che soltanto il 20% viva una situazione di disoccupazione cronica; il 25% avrebbe un lavoro a tempo indeterminato, mentre il 42% sarebbe rappresentato dagli studenti.
Quindi, se ne deduce, che la crisi economica c’entra e non c’entra. Un lavoro giornalistico eccellente che vuole dimostrare come, del resto, ci sia molta poca voglia di emancipazione individuale, molto attaccamento familiare derivante dalla “casa-albergo” così tanto risuonante nei rimproveri genitoriali dell’infanzia e dell’adolescenza di ognuno di noi.
La crisi economica, l’impossibilità della creazione di una autonomia familiare per le giovani generazioni, le difficoltà di un mantenimento dei propri studi con quelli che, un tempo, erano i dignitosi “lavoretti” che non venivano pagati in voucher ma in denaro contante e magari, a volte, anche con la regolarizzazione stagionale dei contributi dovuti per legge, tutto questo diventa retroguardia e retrocede dietro il primo campo, ciò che si vuole mostrare come nuova motivazione della stagnazione di una società che vede gli anziani assistere i giovani, che ha subito un capovolgimento netto e tutto frutto di un liberismo che, dopo l’impulso privatizzatore degli anni ’80 e ’90, ha preso una spinta globalizzante e turbocapitalistica.
Per puro caso, un giorno ho incontrato una ragazza che mi ha dato un volantino di un “compro oro”. Spinto dalla curiosità, le ho chiesto quanto la pagavano. Devo aver stimolato una sorta di indignazione repressa, perché mi ha raccontato per filo e per segno i dettagli della sua “assunzione” e il tipo di “non-contratto” che aveva: per pagare i propri studi universitari nella facoltà genovese di Scienze politiche, cambiava distribuzione e distributore di volantini ogni settimana. Il pagamento avveniva in voucher e, così facendo, riusciva a racimolare una quarantina d’euro a settimana. Una cifra affatto fissa ma variabile a seconda delle “chiamate” lavorative: chiamate giornaliere, limitate quindi in un tempo strettissimo.
Le ho chiesto quanto tempo le rimaneva per lo studio: “Abbastanza”, è stata la risposta. Almeno quello… Mi ha colpito la rassegnazione celata dietro ad un sorriso non di circostanza ma di condivisione di una condizione comune con molti altri suoi coetanei. “E’ la normalità”, mi ha detto.
Forse i giovani e i meno giovani legati alle abitazioni di nascita, ai genitori e al focolare domestico sono anche un po’ immaturi, mammoni e poco emancipati.
Ma la responsabilità primaria di questa mancata spinta evolutiva, che castra amori nascenti, che fa abituare a sensi di colpa per una indipendenza mai sperimentata, che fa volgere e rivolgere in una vita che si sente sempre meno propria per la dipendenza quasi totale dalla sopravvivenza di chi è generazionalmente lontano da una attualità impossibile da concepire come tale fino a pochi decenni or sono, è esclusivamente ascrivibile al venir meno di una serie di tutele e garanzie che sono state sacrificate in nome della competitività dei mercati.
Una modernità economica tale solo come affermazione paradigmatica di un sistema che, nell’impossibile evitamento dello sviluppo globale del capitale, è diventata l’insegna buona di un futuro immaginario, lontano, impercettibile per chi viene pagato in voucher.
Ed allora, i giovani saranno anche “bamboccioni”, immaturi e mammoni, ma le meravigliose sorti e progressive del mercato sono il padre padrone. Sia nel senso lato che in quello più ristretto dei termini. Un paternalismo che ti accarezza il capo per rassicurarti e che ti pugnala alle spalle se tenti di prendere coscienza, ribellarti e provare a conquistarti un pezzetto di emancipazione culturale e ideologica prima ancora che sociale ed economica.
MARCO SFERINI
22 ottobre 2016
foto tratta da Pixabay