La Costituzione è un «terreno comune», il luogo in cui «soggetti diversi si confrontano e trovano le opportunità per la convivenza sulla base di principi comuni». E invece la riforma Renzi-Boschi, «divisiva nel merito e nel metodo con cui è stata votata» «mette a rischio proprio questo terreno comune. Per questo dal 5 dicembre potrà succedere che ciascuno dica ’la mia Costituzione’». L’allarme di Stefano Rodotà è di quelli impegnativi per un giurista.
Usa parole pesanti e lo fa davanti e insieme a un plotoncino di giuristi, costituzionalisti, esperti di diritto e filosofi della politica chiamati a Roma, alla sala Capranichetta, a confrontare le ragioni del No al referendum. Organizza la Scuola per la buona politica di Torino e la Fondazione Basso presieduta da Elena Paciotti, già presidente Anm (associazione nazionale magistrati) ed ex eurodeputata. «Non era successo niente di simile neanche durante il dibattito della Costituente, quando i comunisti e i socialisti furono esclusi dal governo ma i lavori proseguirono con la stessa logica del confronto», continua Rodotà. Non che le differenze di opinione in campo di principi costituzionali non siano previste, naturalmente.
Il dibattito della Costituente ne è formidabile testimonianza. Ma la logica seguita dal governo Renzi – una modifica costituzionale promossa dal governo è già un controsenso perché le Costituzioni hanno una funzione «contromaggioritaria», ricorda Paciotti, e cioè «di limitare l’accentramento del potere politico, separare i poteri pubblici, controllare quelli privati, garantire i diritti fondamentali dei cittadini e delle minoranze» – la logica di Renzi insomma «è quella di far prevalere il proprio punto di vista indebolendo le garanzie», spiega Lorenza Carlassare. In varie maniere, tanto più in combinato con l’Italicum (che è legge dello stato e anche con tutte gli auguri per la sua modifica al momento non può essere ignorata): «Indebolendo la rappresentanza delle minoranze, indebolendo le garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica», attribuendo un premio di maggioranza a una minoranza, «cosa che non si permise di fare nel ’53 neanche Alcide De Gasperi» con la famosa legge Scelba detta ’legge truffa’ (il cui premio non scattò appunto perché nessuno raggiunse la maggioranza). Nella giornata «di riflessione» si parla anche di «tirannia della maggioranza» (Michelangelo Bovero), di «verticalizzazione del potere verso la figura del premier (Carlassare e altri), del confuso e confusivo nuovo bicameralismo e dell’improbabile rappresentanza territoriale affidata al nuovo senato (Mauro Volpi, Francesco Pallante, Valentina Pazé). Ma il filo rosso è per tutti l’idea di una Carta come «terreno comune» o, come dice Luigi Ferrajoli, «precondizione condivisa per il vivere civile», «patto di convivenza in cui tutti si riconoscono» sostituita – se vincesse il Sì – dall’idea esattamente opposta «del chi vince prende tutto, e chi vince non è neanche la maggioranza ma la maggiore minoranza». «Il rischio è altissimo», misura le parole un altro costituzionalista, Gaetano Azzariti: «Perdere un bene inestimabile, un valore supremo, quello che nel ’48 rappresentò una carta d’identità per un’Italia che usciva divisa e lacerata dalla guerra e dal Ventennio».
Rischio respinto da uno dei due discussant del Sì invitati al dibattito, Cesare Pinelli, che invita a non drammatizzare i toni e a ricordare che nel 2005 dopo la battaglia per il No al referendum sulla riforma Berlusconi «non ci siamo così divisi, oggi sta a tutti riuscire a conservare le ragioni dello stare insieme dopo il 4 dicembre». Ma nel 2005 era difficile trovare un costituzionalista a favore del pasticciaccio del Cavaliere. Lo stesso Pinelli rivendica di aver militato per il No all’epoca. Oggi è diverso, e questo stupisce soprattutto ora che anche dal partito di governo viene rivendicata la derivazione della modifica Renzi-Boschi da quella berlusconiana, ormai senza più disagio.
Se vincerà il No la riforma «così lontana dal costituzionalismo» sarà archiviata e con essa la stagione politica di cui è figlia. Anche se, avverte Azzariti, da quel No bisognerà ripartire per porre rimedio alla «crisi del parlamentarismo» e quella «della rappresentanza e dei rappresentati, bisognerà rimediare al lungo regresso che questa riforma vorrebbe costituzionalizzare».
Se invece vincerà il Sì, invece. quello dei fautori della maggioranza che è una minoranza «piglia tutto», la situazione sarà invece molto delicata. Da questa sala rullano tamburi: «La modifica è illegittima, anzi è eversione costituzionale», dice il professore Alessandro Pace, «una violazione di inaudita gravità» prodotta da «una legislatura drogata» dal premio di maggioranza attribuito dal Porcellum, «indegna di affrontare la revisione costituzionale».
Anche Pace usa parole pesanti. Non solo le sue, cita anche quelle del deputato a 5 stelle Vito Crimi: «La revisione è un azzardo costituzionale». O quelle assai più autorevoli del costituzionalista Giuseppe Ugo Rescigno all’indomani della sentenza della Consulta numero 1 del 2014 che dichiarò incostituzionale quel premio di maggioranza: «Mi stupisco che milioni di cittadini non siano scesi in strada per esigere l’immediato scioglimento di un parlamento illegittimo».
DANIELA PREZIOSI
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