Qualcuno sostiene, più che altro in chiave ironica, che Silvio Berlusconi ha venduto il Milan ai comunisti. I cinesi, infatti, sono formalmente una nazione che si richiama ancora al comunismo. Non si sa bene a quale comunismo si richiami, visto che si tratta di un paese che viaggia a velocità turbo-capitalista, ma basta conservare nel proprio simbolo di partito-stato e di stato-partito la cara falce e martello per essere classificabili ancora come comunisti.
Ciò vale anche per i liberali: molti pensano di essere tali e, invece, sono liberisti.
Alcuni si definiscono liberali, libertari e liberisti insieme: un trittico tutto radicale, incomprensibile su un piano di sintesi e quindi di condivisione di valori morali e di piattaforme materiali e politiche eufemisticamente classificabili come “antitetiche”.
L’antitesi vale anche per il Milan venduto ai “comunisti”. Ironia o non ironia, oggi è difficile poter dire se esiste ancora al mondo uno “stato-comunista”. Definizione che mi provoca un prurito simile a quello dell’orticaria. Che il comunismo possa diventare e rimanere uno “Stato”, quindi un apparato di potere è già la morte del comunismo, del movimento che può rivoltare il mondo.
Che la Cina, poi, sia erede di una forma di socialismo applicato, di un tentativo anche nobile e importante di far uscire da un medioevo millenario un popolo vissuto in schiavitù e servaggio dalle campagne alle città, è tutto sacrosantamente vero.
Ma che ora Berlusconi, dopo l’amicizia con Putin, diventi nuovamente “amico dei comunisti” per la vendita del Milan ai cinesi, è una operazione di bassa ironia, di ironia semplicistica e quasi banale in quanto scontata.
Capitalisti e capitalisti: italiani e cinesi. Hanno trattato per acquistare un prodotto che sta sul mercato e hanno trovato un accordo.
Non c’entra niente Mao, il comunismo e nemmeno la falce e martello. Il primo è morto, il secondo non sta molto bene e la terza è lì a simbolo di un passato che è troppo, purtroppo, passato.
(m.s.)
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