Diabolico. E’ il primo aggettivo che mi viene in mente per definire questa perseveranza del Partito democratico nel cimentarsi in una sfilata di errori che sono così palesi e così individuabili da far nuovamente nascere la parola “incomprensibile” per declinare quanto sta accadendo in Parlamento riguardo l’elezione del nuovo Capo dello Stato.
La politica, come la vita, non è mai così semplice e semplificabile da renderla elementare, ma quello che un po’ tutti ci chiediamo è come si fa a non percepire nel primo caso (quello della candidatura tripartisan o quadripartisan, inclusa la Lega, di Marini) che l’accordissimo avrebbe scontentato – a dir poco – la base dello stesso PD e moltissima gente che aveva sperato in un cambiamento almeno ai massimi vertici della Repubblica; nel secondo caso come ha fatto Bersani e il gruppo dirigente del partito fondato anche da Romano Prodi a non riuscire a controllare quell’unanimità di voti che era venuta fuori l’altra sera dall’assemblea dei grandi elettori democratici proprio sul nome del già due volte trionfatore alle elezioni politiche sul cavaliere nero di Arcore…
Queste domande banali lasciano sconcerti, perché errare è umano ma, per l’appunto, perseverare diventa diabolico. E ora si rischia la tragicommedia, lontani dal tipico melodramma italiano: la destra che accusa il centrosinistra di occupare tutte le cariche istituzionali e scende in piazza a manifestare con i fascisti di La Russa e di Casa Pound e Grillo che dalle piazze friulane urla che andrà avanti con Rodotà fino alla morte.
Da molti mesi a questa parte non avrei pensato di dover concordare con Grillo: il nome di Stefano Rodotà è veramente l’unico che rappresenta insieme la tensione emotiva popolare di cambiamento che viene espressa sia nelle vie e nelle piazze di Roma, davanti al Parlamento, sia su una valanga di messaggi sui social network, che la possibile via di uscita per un governo a maggioranza PD – SEL – PSI – UV – Movimento 5 Stelle. Grillo, infatti apre le “praterie a sinistra”: se votate Rodotà, dice, si può fare il governo insieme.
La richiesta di avere come Presidente della Repubblica Rodotà è testimoniata ulteriormente anche dalla stessa Presidente della Camera a dichiarare che è stato messo un filtro al server postale del ramo parlamentare minore proprio in merito al cognome e nome del Nostro, perché in poche ore erano giunte almeno ventimila email di sostegno alla candidatura del costituzionalista già garante della privacy.
Ma tutto questo al PD non basta. Il nome di Prodi, si dicono sicuri Bersani e i suoi, può allontanare la minaccia della scissione interna, delle occupazioni delle sedi da parte di giovani militanti arancioni del partito e ricomporre anche l’unità con Nichi Vendola.
Infatti Vendola si allinea e vota contrassegnando i consensi per Prodi: “I nostri hanno tutti segnato il voto: R. Prodi”. Quindi le schede lette dalla Boldrini sono contate e verificate. Sinistra Ecologia Libertà “con Vendola” ha fatto il suo dovere di alleato per allontanare – peraltro giustamente su questo piano di ragionamento – un nuovo paventato inciucio col PDL per un presidentissimo eletto trasversalmente…
Ma alla resa dei conti, perché Prodi diventi Presidente della Repubblica mancano 109 voti. Franchi tiratori, o ancora semplicemente “franchi”, come ripete Pippo Civati che non sa più che pesci pigliare: lui ce l’ha messa tutta. Ha votato Rodotà sperando di trascinare i suoi da quella parte, ha poi votato scheda bianca allineandosi all’attendismo del partito e ora ha votato Prodi ma non è servito a nulla. Cosa deve fare di più un giovane trentottenne come lui che, a ben vedere, sembra davvero il più coerente di tutti in questo agone di attriti, tensioni, false cortesi e disperazioni?
La cronaca può fermarsi qui, sempre che di cronaca si possa trattare. Perché nella descrizione che ho fatto c’è già molta osservazione delle debolezze di un partito allo stremo delle sue forze, che brucia quel consenso elettorale che ha ottenuto anche con il trucchetto del voto utile per certi versi, ma che indubbiamente ha in tutta Italia.
Il Paese è spaccato in almeno tre grandi pezzi: berlusconiani e affini, democratici e affini, grillini. E rischia di rimanere tale, senza una ricomposizione almeno della parte sana e presentabile: quei milioni di elettori che hanno votato sia centrosinistra che Grillo per cercare di non riconsegnare l’Italia ad un centrodestra che è la peggio politica che possa esistere.
Se ci trovassimo in sede di approvazione di qualche provvedimento particolare di economia si potrebbe dire che gli inciuci sono di casa, sono di giornata. Ma nelle votazioni per l’elezione della massima carica di garanzia dello Stato, il più grande partito italiano, quello dell’area “progressista” (latamente progressista, anche per non offendere Colaninno, Renzi e molti altri che digerirebbero male questo termine che un tempo rappresentava veramente la sinistra italiana), non può procedere a tentoni; non può sacrificare sull’indefinizione di una linea, navigando a vista e sbattendo ora contro questo ora contro quello scoglio, i nomi prima di Marini e poi di Prodi. E non tanto per la qualità dei nomi, quanto per l’uso che ne ha fatto.
In quarantotto ore il PD è passato dall’accordo con Berlusconi alla rottura, dalle parole di divorzio di Vendola ad un nuovo accordo con lui, dando la dimostrazione di non sapere veramente che fare e di procedere per tentativi.
E ha ragione Romano Prodi a tirarsi fuori da questo pasticcio. L’hanno già sacrificato troppe volte sull’altare dei politici tatticismi da quattro soldi…
Beppe Grillo ne approfitta subito e, forte della candidatura di Rodotà, che non è solamente sua ma di tutti coloro che la condividono anche a sinistra (seppur non presenti in Parlamento), rimette all’angolo quelli che dovrebbero essere i “professionals” della politica polticienne: apre Grillo, apre addirittura al governo. E il PD va in crisi: votare Rodotà? Piegarsi a Grillo? Mostrare così palesemente un fallimento che del resto è evidentissimo a tutte e tutti?
Forse sarebbe il caso proprio di fare questo, di mostrare e dimostrare che – anche questa volta – la situazione si è ingarbugliata perché per rincorrere il mito della “responsabilità di governo” si è tentato lo scambio con il PDL e poi, con la rivolta popolare, si è fatta marcia indietro contando su un controllo inesistente del consenso parlamentare del proprio grande elettorato.
Bersani ha tutte le armi spuntate, nessuna carta da giocare. Resta il nome di Massimo D’Alema: forse questo non sarà bocciato dai 109 franchi tiratori, ma non avrà mai l’autorevolezza che avrebbe avuto un Rodotà votato al quarto scrutinio, o magari anche al terzo.
Non è ancora troppo tardi per abbracciare il cambiamento e venire incontro alla domanda del Paese. Ormai una trentina di errori sono stati fatti. Sarebbe più ancora che diabolico, sarebbe immorale fare il trentunesimo nonostante la sacra imperscrutabile parola dei proverbi antichi.
MARCO SFERINI
19 aprile 2013