A Bologna rinasce il PCI

La relazione introduttiva di Bruno Steri

Care compagne e cari compagni, in premessa lasciatemi esprimere un ringraziamento.

Vedo la sala piena e ciò è tanto più notevole in quanto, come sappiamo, ciascuno di noi è venuto qui a proprie spese, pagandosi il viaggio e la permanenza. Di questi tempi non è poco. Ma evidentemente la passione politica è più forte di qualunque difficoltà. Questo è il primo significativo segnale che mi piace sottolineare. Tocca a me, dunque, svolgere la relazione che introduce questa nostra Assemblea nazionale costituente delle comuniste e dei comunisti. Essa è un passaggio importante, con cui si concretizza l’obiettivo di unificare esperienze diverse avviandole in direzione di un’impresa politica ambiziosa, apparentemente ai limiti della temerarietà: quella di ricostruire nel nostro Paese il Partito comunista.

Un’impresa che, dopo decine e decine di partecipatissime assemblee territoriali svoltesi in tutta Italia, arriva oggi a porre un primo fondamentale mattone.

So bene che tanti compagni hanno atteso con ansia e con una certa impazienza questo momento: ho avuto modo di registrare l’impellenza di questa attesa nelle diverse assemblee cui ho partecipato. Dò quindi per acquisita la grande soddisfazione che deriva dall’essere arrivati sin qui. Non era affatto scontato. Né è stato un percorso semplice e lineare. Abbiamo dovuto sormontare difficoltà anche serie: la prima delle quali consistente nel fatto che l’Associazione ricostruirepc, quella che in questo anno e mezzo si è impegnata a realizzare l’obiettivo  che è sintetizzato nel suo stesso nome, ha riunito gente proveniente da esperienze diverse, da organizzazioni diverse, o anche da nessuna organizzazione.  Molti dei presenti provengono dal Partito Comunista d’Italia, una forza politica che generosamente e non da oggi ha posto in primo piano l’esigenza di avviare un processo di riaggregazione dei comunisti. Altri giungono dall’esperienza di Rifondazione Comunista, nata venticinque anni fa per dire no alla rottamazione del Partito Comunista Italiano. Altri ancora hanno deciso di unirsi a noi non avendo alcuna tessera di partito in tasca. Provenienze diverse, dunque; ma tutti comunisti. E tutti mossi da un duplice sentire:  l’insoddisfazione profonda per lo stato di cose presente, che in Italia ha relegato i comunisti, ovunque collocati, in una condizione di irrilevanza politica; la consapevolezza dell’urgenza di tornare a offrire a questo Paese una presenza comunista organizzata degna di questo nome.

Come ho detto, oggi per noi è un giorno importante. Tuttavia riterrei fuori luogo se in questa circostanza usassimo semplicemente toni celebrativi. Personalmente, peraltro, non ne sarei capace. Con questa relazione preferisco  provare a fare da apripista: appunto aprire la pista, sgombrare il terreno da possibili fraintendimenti o interpretazioni errate. Comincio dal nome di questa Assemblea. I nomi sono importanti perché designano le cose; e quindi devono corrispondere a ciò che designano. Questa è un’Assemblea costituente, così l’abbiamo chiamata. Un’Assemblea che allude a un primo Congresso del Partito Comunista. In effetti è essa stessa già in qualche modo un Congresso: abbiamo un Documento, che proponiamo alla discussione e all’approvazione; dobbiamo eleggere degli organismi dirigenti. Sono le cose che fanno i congressi. E tuttavia essa ha una peculiarità: è l’inizio di qualcosa, non è un momento – e tanto meno il compimento – di qualcosa che già esiste. Da un punto di vista formale, questa tre-giorni sancisce che quello che c’era prima di noi, non c’è più. Oggi ufficializziamo l’obiettivo di far nascere qualcosa di nuovo: un partito comunista all’altezza delle attuali esigenze. Da questo punto di partenza intendiamo tenere aperto il percorso, privilegiando la volontà di confronto con chi si dichiari interessato al suddetto obiettivo.

Sappiamo bene che non basta autoproclamarsi Partito comunista per esserlo. Una compagna molto acuta, una valente giornalista di Liberazione, commentando il nostro progetto politico, mi incalzava dicendo: “Bene! Benissimo! E dov’è Togliatti?”. Evidentemente, si riferiva al fatto che la storia non si ripete. Ma, a ben vedere, la battuta ha anche un sapore leninista, allude cioè al fatto che c’è un partito se c’è un gruppo dirigente: ora, i gruppi dirigenti che hanno operato dall’89 in poi alla sinistra di quello che è oggi diventato il Pd, pur impegnandosi con generosità, non hanno però realizzato quello per cui si sono impegnati. I fatti, drammaticamente, son qui a dimostrarlo. Da questo punto di vista la battuta della compagna ha un senso. Ne aggiungerei a mia volta un’altra: e dov’è il nostro popolo? Dov’è finito il nostro popolo?

Vedete, noi abbiamo il dovere di non essere indulgenti, innanzitutto verso noi stessi . Poiché il compito che ci sta davanti non è dei più semplici, dobbiamo essere rigorosi nell’individuare cosa non ha funzionato in questi ultimi decenni. Non si tratta di gettare a mare le esperienze passate, del resto in politica si può vincere e si può perdere: ci possono stare le sconfitte, a patto però che da esse si sappiano trarre i relativi insegnamenti, che esse servano a emendare gli errori commessi.  Della necessità di una “rilegittimazione dei comunisti” siamo stati consapevoli sin dall’inizio di questa nostra impresa politica. Vale la pena nel merito ricordare quanto scrivevamo nell’Appello che l’ha inaugurata, ove è chiaramente indicato il carattere distintivo di tale impresa: “un processo graduale e di non breve periodo (ma che va iniziato ora)”, “ che metta capo a un’unica forza comunista rigenerata (…) una forza politica comunista non settaria né subalterna all’opportunismo delle mode correnti, che si ponga in un rapporto di dialogo costruttivo (ma da un punto di vista autonomo) nell’ambito della sinistra d’alternativa: senza cessioni di sovranità sulle questioni di fondo, ma capace di trovare volta a volta la sintesi strutturata e non occasionale dell’unità d’azione”; un processo che “richiede non improvvisate alchimie elettoralistiche, ma la costruzione di fondamenta solide nel mondo del lavoro e nel conflitto di classe nonché un pensiero forte verificato nel tempo: è questo il solo terreno – conclude l’Appello – su cui possono crescere gruppi dirigenti uniti e solidali, tenuti insieme non da occasionali e contingenti convenienze politiciste”. Questo scrivevamo, questo dobbiamo ribadire. E’ precisamente la consapevolezza dei limiti delle recenti esperienze a fornirci una fondamentale indicazione per la ricostruzione del partito comunista: quest’ultima deve procedere di pari passo con un processo di consolidamento della tenuta ideologica e strategica del partito.  Ciò significa che i gruppi dirigenti, oltre ad essere impegnati nell’elaborazione e nella discussione della linea politica, devono irrobustirsi e amalgamarsi politicamente attraverso il costante affinamento e la messa alla prova delle culture politiche. E significa che si deve prestare più attenzione di quanto non sia stato fatto nel recente passato alla formazione dei giovani e dei militanti.

Riconoscere l’importanza di tale istanza non comporta affatto fare delle concessioni ad un approccio illuministico, elitario; o, per usare formule appartenenti ad una classica disputa, contrapporre il “partito di quadri” al “partito di massa”, optando poi per il primo. In effetti, forse anche a seguito delle recenti impasse elettorali, la suddetta concezione si è fatta strada all’interno dell’opposizione di classe anticapitalista. Si dice: la forma partito non deve essere concepita come un apriori immutabile, essa muta al mutare della fase storica. E poi si aggiunge: il partito di massa costruito da Palmiro Togliatti sull’onda della sconfitta del nazi-fascismo e in sintonia con l’ascesa delle lotte popolari e del movimento operaio – così com’era organizzato attorno ai grandi insediamenti industriali – quel partito non è riproponibile oggi, nell’epoca della produzione flessibile, della frammentazione e segmentazione della forza-lavoro. Ora, in piena crisi sistemica e strutturale del sistema capitalistico, che vi sia la necessità di adeguare l’organizzazione politica dei comunisti alle peculiarità della temperie storica, è cosa ovvia e condivisibile. Ma che da qui si passi a liquidare la prospettiva di ricostruire un partito di massa, questa è una conclusione schematica, non dialettica. In definitiva, una conclusione sbagliata. Al fondo, c’è in essa l’idea di una secca partizione: prima il nucleo duro, per così dire il consenso più strutturato, poi la politica, il consenso diffuso. Una tale scansione può servire come facile semplificazione; ma le cose non funzionano così, nel vivo della storia. Il punto è che non siamo noi a decidere i tempi e i modi delle evenienze storiche. Noi abbiamo il dovere di attrezzarci per intervenire su tutto il campo della scena sociale e politica: strutturando l’organizzazione interna e formando i quadri dirigenti; ma, nel contempo, intervenendo – per quel che si riesce – nei punti caldi dello scontro di classe, impostando una linea di massa attenta alle mutazioni del senso comune diffuso, decidendo volta per volta l’impegno istituzionale e elettorale (senza che quest’ultimo divenga, come purtroppo è accaduto nel recente passato, l’alfa e l’omega della nostra iniziativa politica).

Una conferma della giustezza di tale impostazione viene proprio dal modo in cui in questi anni ha agito il neoliberismo e il suo “pensiero unico”: esso ha colpito visibilmente e massicciamente le condizioni materiali di vita, i rapporti di lavoro, gli assetti istituzionali; ma ha nello stesso tempo agito più sottilmente e insidiosamente sul vissuto quotidiano, colonizzando menti e pulsioni profonde, interrompendo i circuiti della memoria storica, modellando modi di pensare e aspirazioni, individuali e collettive. E’ in questo ambito che il partito comunista ha ad esempio il dovere di porsi il problema di una strategia d’intervento sul sistema mediatico, contrastando con ogni mezzo possibile l’esclusione dai mezzi di comunicazione di massa, quelli tradizionali e quelli nuovi, ma occupando sapientemente ogni varco a cui si riesca ad accedere. La battaglia politica per guadagnare consenso e relazionarsi al movimento di classe avviene a tutti i livelli della totalità sociale, politica, istituzionale, mediatica. E’ questa globale capacità di confronto che caratterizza la politica in senso forte. Da sottoporre a critica non è il tentativo operato in questi due decenni – peraltro fallito – di collocarsi all’altezza di tale contesa. Non è questo che va criticato. Occorre mantenere l’ambizione di un’azione politica di massa, della conquista di un consenso largo, della creazione di un senso comune diffuso che sia favorevole alla nostra azione, al nostro progetto di società.

Torno all’interrogativo di cui sopra: che fine ha fatto il nostro popolo? La scena politica italiana è totalmente cambiata e i recenti risultati elettorali sono solo l’ultima eclatante manifestazione di tale cambiamento. Nel contesto di una crisi capitalistica che il documento che presentiamo a questa Assemblea definisce strutturale e di cui, al di là delle ricorrenti e rassicuranti dichiarazioni, ad oggi non si vede la fine, il nostro Paese ha specificamente aggiunto alla recessione economica e sociale una drammatica involuzione istituzionale e morale. Il Novecento arretra, ma il nuovo secolo assomiglia all’Ottocento, che nel frattempo torna (persino con forme di lavoro servile). Le statistiche dicono che il numero di super-ricchi aumenta, a riprova che la crisi non è per tutti: alla privatizzazione di enormi masse di ricchezza fa da contraltare un generale impoverimento. Per non fare che un esempio, il fatto vergognoso che milioni di persone (il 7/10 per cento a seconda delle stime) abbia smesso di curarsi dà l’idea della condizione in cui versa tanta gente e del tipo di società che va affermandosi. Lo stato di diritto viene subordinato all’economia: di qui la tentazione di torsioni autoritarie dell’assetto politico-istituzionale. Le battaglie referendarie per l’abolizione del Jobs Act da un lato e per il No alla contro-riforma istituzionale dall’altro sono due facce della stessa medaglia, ove è in gioco una decisiva questione di democrazia sostanziale.

In tale contesto, una fase politica è giunta a termine. Occorre prenderne rapidamente atto e provare a ripartire col piede giusto, consapevoli che nel nostro Paese la crisi ha investito un intero sistema politico: un sistema politico in cui gli eredi di quella che un tempo fu la sinistra sono diventati parte integrante del problema. Non può essere un caso che il dato elettorale metta in evidenza che il Partito Democratico regge solo nei centri storici e nei quartieri bene di grandi città – come i Parioli a Roma o la Crocetta a Torino – e sprofonda nelle periferie, dove il voto popolare si perde nell’astensione o va ai Cinque Stelle e alle destre. Ma attenzione, questa stessa divaricazione fu registrata anche nel voto a L’altra Europa per Tsipras. A questo punto, l’interrogativo sopra posto si intreccia con un altro, che potrei un po’ provocatoriamente esprimere così: perché il M5S e non noi? Diamo per scontato, ovviamente , che l’evaporare delle appartenenze e la conseguente volatilità del voto rendono quanto mai effimera la consistenza dei risultati: domani puoi perdere con altrettanta rapidità quel che hai guadagnato oggi. Ma stiamo al merito della domanda: perché il M5S e non noi? So bene che la risposta ha a che vedere con la distruzione dell’impianto ideologico e concettuale della sinistra, sciaguratamente e pervicacemente attuato nei decenni passati; e, più in generale, con lo sfacelo culturale del nostro Paese (la demolizione degli apparati formativi, l’appannamento di ogni pensiero critico). Ciò ha reso sempre più complicato rendere riconoscibili le ragioni di un’appartenenza ideale e politica. Allo stesso modo abbiamo perfettamente chiaro quanto siano fuorvianti e pericolose le ambiguità dell’interclassismo, che sul piano della propaganda politica si traducono nella formula “né di destra né di sinistra”, la retorica anti-partito, che approfittando di una giusta denuncia dell’involuzione burocratica dei partiti effettivamente operanti finisce per buttare il bambino con l’acqua sporca. Tuttavia è necessario guardare ai nuovi fenomeni politici con spirito analitico, riflettendo ad esempio sul fatto che  la crescita di consenso al movimento di Grillo per contrasto parla anche di noi, riguarda da vicino noi e i nostri limiti. Ad esempio. Non sto a dilungarmi sul carattere potenzialmente reazionario della polemica anti-casta, parente stretta delle strida contro la cosiddetta “partitocrazia”: ai padroni del vapore può esser sufficiente un sistema partitico e un Parlamento addomesticati, opportunamente selezionati (al centro come all’opposizione); di contro, raffigurare la politica come una cosa sporca (perfino quando una tale raffigurazione trova conferme nella realtà) non può certo giovare ai lavoratori. Questo lo sappiamo. In tale reazionaria polemica c’è tuttavia un nucleo non fittizio che avremmo dovuto per tempo prendere in mano noi, noi comunisti. Mi è già capitato di ricordare come un grande dirigente comunista, Lenin, invitasse a diffidare del “potere seduttivo delle istituzioni borghesi”. In particolare in tempi in cui c’è parecchia gente che fatica ad arrivare a fine mese, noi avremmo dovuto con più forza porre il problema del controllo e eventualmente della riduzione del flusso di denaro che attraversa le sedi politiche e istituzionali, magari proponendo contestualmente sedi di discussione gratuite, disponibilità di sale per assemblee e congressi, agevolazioni per i luoghi della partecipazione democratica (comprese le sezioni di partito) ecc. E’ questo solo un esempio.

Ma in generale, l’attuale congiuntura politica indica la necessità di una netta contrapposizione rispetto al quadro politico vigente e alle forze politiche che di esso sono le maggiori responsabili, a cominciare dal Partito Democratico. In tal senso va recuperata quella che è stata la caratteristica distintiva dei comunisti: la loro irriducibile diversità. E dobbiamo saper valorizzare le nostre idee-forza, senza le quali nessuna organizzazione è in grado di mantenersi viva. I comunisti hanno sempre avuto una chiara percezione del contesto globale in cui operano: oggi sappiamo che, in questa ottica generale, è dirimente richiamare l’attenzione della politica e di un’opinione pubblica distratta, afflitta dai propri problemi quotidiani, sul pericolo crescente di una propensione alla guerra e all’impennarsi delle spese militari, consapevoli che chi produce armi prima o poi le usa. Entro tale deriva, preminenti sono le responsabilità della Nato e della potenza capitalistica in essa egemone, gli Stati Uniti, i quali in questi due decenni si sono resi protagonisti della devastazione e della frammentazione di interi Stati, ritenuti di ostacolo agli obiettivi di leadership globale, mietendo centinaia di migliaia di vittime civili, provocando la creazione di masse enormi di disperati alla ricerca di condizioni minime di sopravvivenza, alimentando o assecondando – anche per il tramite delle petromonarchie del Golfo loro alleate – il fondamentalismo wahabita. Davanti all’incombere di tali pericoli per l’umanità tutta, tocca a noi il compito di tornare a mettere la Nato sul banco degli imputati e a porre all’ordine del giorno l’uscita dell’Italia da tale anacronistica organizzazione, nel rispetto della nostra Costituzione che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E spetta ai comunisti ridiscutere la presenza di basi militari straniere, vere e proprie zone franche operanti nel territorio nazionale, a cominciare dalla rivendicazione: Via le armi atomiche dall’Italia. Tutto ciò è in sintonia con l’impegno antimperialista dei comunisti, con la tradizione di solidarietà internazionalista con i popoli in lotta per la propria libertà e la propria sovranità, dall’America Latina al Medio Oriente, da Cuba alla Palestina: in vista di un mondo multipolare, in cui nuovi protagonisti affermano legittimamente il proprio ruolo, un mondo retto da una comune volontà di pace, di pacifica convivenza, senza alcun gendarme globale che decida a suon di bombe per sé e per tutti.

Accanto alla pace, il lavoro: queste si ripropongono come le nostre idee-forza. La condizione del lavoro resta al centro delle nostre proposte in quanto, per cambiare lo stato di cose presente, i comunisti hanno sempre posto in primo piano la necessità di una profonda trasformazione del modo di produzione vigente: non si tratta solo di cambiare un governo (cosa che, comunque, se si dà il caso va fatta), si tratta di cambiare la società, ponendo all’ordine del giorno della politica il come, il cosa, il per chi produrre. Nella fase storica attuale, fare i conti con tali nevralgici punti programmatici significa fare i conti con la dimensione politico-istituzionale assunta da una parte preponderante dell’Europa: fare i conti con le politiche, gli orientamenti imposti dall’Unione Europea. Davanti a quelle che il nostro documento definisce le “contraddizioni strutturali dell’Unione Europea”, riteniamo che, all’altezza di questa dimensione, sia giunta l’ora di operare risolutamente per un’alternativa. L’Unione Europea non è l’Europa a cui aspirano i comunisti, le forze di progresso, i soggetti sociali che a queste fanno riferimento: non è un’opportunità ma il suo contrario. Non siamo solo noi a dirlo. Lo dicono importanti partiti comunisti come il Pc portoghese, lo dicono autorevoli dirigenti della sinistra continentale come Oskar Lafontaine. L’Unione Europea a trazione monetaria è un argine eretto contro i diritti e le conquiste del movimento operaio, un potere tecnocratico e oligarchico che funziona a scapito della democrazia partecipata. In definitiva, una gabbia in cui la sinistra è destinata a soccombere. Lo dimostra la condizione disperata cui è stato criminalmente ridotto il popolo greco, lo dimostra la dura protesta che in questi giorni ha portato nelle piazze i lavoratori francesi contro la sterilizzazione della contrattazione nazionale di lavoro a tutto vantaggio degli accordi aziendali (una controriforma a più riprese auspicata dal governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi). Perfino la timida proposta di correzione della legge Fornero, con la possibilità di pensionamento anticipato, avanzata dal governo Renzi ha subito trovato il compatto “niet” della Commissione Ue. Non si tratta degli errori di un establishment incompetente, ma di consapevoli, pianificati orientamenti antipopolari, al servizio del capitale finanziario e di potentati economici sovranazionali. In questo contesto, non sorprende più di tanto l’esito del referendum inglese favorevole all’uscita dall’Ue (peraltro conseguito nonostante una mobilitazione degli affetti seguita al tragico assassinio di una deputata): è l’ennesima grave crepa di un impianto che non produce aggregazione ma disgregazione, che esalta le pulsioni delle destre xenofobe e autarchiche. Un impianto che è in ogni caso destinato a non reggere. Su tale situazione la sinistra non può più balbettare, men che meno noi comunisti: avvertiamo perfettamente la pericolosità della sig.ra Lepen, ma proprio per questo diciamo che non si può stare al fianco di Goldman Sachs e di Mario Monti.

Care compagne e cari compagni, è stato autorevolmente detto che è sfortunato il Paese che ha bisogno di eroi. E noi non abbiamo bisogno di eroismi ma di passione politica: dobbiamo essere capaci di farla rinascere in tanti giovani, per i quali oggi la vita è diventata più complicata di quanto non è stato per la mia generazione. Bisogna che molti di loro riscoprano che quello presente non è né il migliore né l’unico mondo possibile. E’ un mondo che si può, si deve cambiare. Per questo, compagne e compagni, al lavoro e alla lotta. Viva il partito comunista.

BRUNO STERI
Costituente per il Partito Comunista Italiano

da ricostruirepc.it

foto tratta dal profilo Facebook del PCdI

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