Quarantotto ore dopo i risultati dei ballottaggi possiamo iniziare a ragionare anche sulle singole affermazioni delle forze politiche che hanno ottenuto risultati così differenti da creare un nuovo quadro politico per il Paese intero.
L’inflazionata frase, che si pronuncia sempre nel post-voto quando si perde sonoramente, secondo cui “non è stato un test nazionale e non ha una valenza politica per il governo” è davvero poco fuorviante in questo frangente.
Chi può davvero accettare un dettame di questo tipo? E’ sotto gli occhi di tutti il prodotto di una espressione popolare che si lega da nord a sud, da Roma a Torino, da Milano a Napoli, da Bologna a Cagliari e che si riflette in tutti gli altri piccoli e medi centri dello Stivale.
Della sconfitta del PD e del teorema renziano che ne sorregge le politiche sia di governo nazionale che locale ho già avuto modo di scrivere ieri.
Oggi vorrei provare a ragionare sul “fenomeno” Cinquestelle. Vorrei capire, in sostanza, la qualità del voto dato al movimento di Grillo, la sua composizione anche emozionale, pure ideologica (ammesso che i pentastellati abbiano una ideologia di riferimento; francamente non la riesco ad individuare, ma può essere che sia in gestazione), forse anche dettata da una spinta propulsiva di carattere protestatario.
Ecco, il livello di espansione del consenso ai grillini è così ampio e abbastanza uniforme nel Paese da spingerci a ragionare su un flusso che si alimenta per tendenze, contraddizioni e forze dinamiche, politiche e sociali, molto differenti tra loro.
Del resto, è noto che, non essendo un “partito” nel senso classico del termine, ma essendo un soggetto politico privo di connotazione geo-politica (sinistra, centro, destra), ha polarizzato su di sé tutto quel malcontento che è stato generato da una gestione privatistica della cosa pubblica, da un logoramento del rapporto tra le istituzioni repubblicane e i cittadini che le eleggevano e che, ogni volta, si ritrovavano davanti scenari di aperto tradimento della delega data con cambi di campo così grossolani da rendere il Parlamento un luogo di tutela di interessi personali a discapito del bene comune.
La crisi della sinistra di alternativa, dettata anche dalla collaborazione nei governi di centrosinistra in nome dello scongiuramento del pericolo berlusconiano e da una difficoltà comunicativa proprio sugli elementi dirimenti rispetto a tutte le altre forze politiche in tema di differenza sostanziale, ha aperto il varco ad una protesta politica appunto trasversale, che ha risucchiato voti anche al centrodestra, che ha palesemente penalizzato quella Lega Nord di Salvini che, visto il presenzialismo televisivo del leader padano, si pensava avrebbe avuto un successo di una certa portata.
Invece il movimento grillino riesce anche in questa operazione perché tiene insieme espressioni politiche molto simili a quelle leghiste in tema di migranti e solidarietà sociale e slanci progressisti in tema di ambiente, consumo delle risorse, gestione amministrativa.
Poi c’è una cornice vuota, banale, veramente populista nel senso più vero del termine: va bene a tutti, nessuno potrebbe esprimersi contrariamente o dire di non condividerla. Sarebbe masochismo, autolesionismo incomprensibile. E’ la cornice dell'”onestà”.
La rivendicano come programma politico. Ma l’onestà non è un programma politico. E’ semmai una virtù repubblicana, giacobinamente parlando, un modo di essere imprescindibile e non derubricabile da chiunque.
Chi mai si professa “disonesto”? Il primo a non farlo è proprio il disonesto stesso. Il nostro diritto, erede di quello romano, non gli attribuisce nemmeno l’onere della prova. E’ l’accusa che deve provare la disonestà. Sacrosantamente giusto.
Per cui capita spesso che sia proprio l’onesto a dimostrare di essere tale e che il disonesto, servendosi di qualche azzeccagarbugli, riesca a scamparla e a divincolarsi dalle maglie della Legge, a farsene beffe e a mostrarsi per quello che non è, continuando ad essere disonesto nella piena legalità.
Uno scenario molto frequente, per aspetti diversi, per generazioni differenti con cause altrettanto estremamente diverse. Eppure su questo cattivo funzionamento del sistema, fatto di corruttele e di imbrogli a danno della collettività, di profitti indebitamente accumulati, di truffe e scandali che si sono susseguiti senza soluzione di continuità, grazie a tutto questo malaffare simbioticamente prodotto dalla perversa e incontrovertibile unione tra economia e politica (l’una padrona dell’altra), il malessere sociale è naturalmente cresciuto ed è stato intercettato da un partito che ha giocato carte eccellenti per dimostrare la sua verginità assoluta, politica, sociale, economica e civica.
Alla domanda: “Da chi dipendete?”, i grillini rispondo candidamente: “Da nessuno”. E replicano: “Rispondiamo solo ai cittadini perché lo siamo anche noi.”.
Un teorema artificiale ben costruito, difficile da smontare con le buone ragioni di chi, come noi comunisti, si batte “oltre l’onestà” nel senso più nobile del termine, dandola come acquisizione fondamentale per una passione politica genuina e priva di particolarismi e personalismi.
Dunque, analizzando il voto sia localmente sia con uno sguardo d’insieme, si può osservare che oggi la protesta grillina evolve e si trasforma, con la conquista di importanti ambiti amministrativi come la prima e la terza Capitale d’Italia, in proposta.
Governando dovranno proporre una linea politica, dovranno assumere una fisionomia anche ideologica o riusciranno a mantenersi equidistanti da posizioni e scelte che, per forza di cose, accontenteranno una parte della società e ne penalizzeranno un’altra?
E’ una domanda che, per ora, non trova risposta. I fatti parleranno per noi e ci diranno su quale piattaforma politica il movimento Cinquestelle tenterà la scalata di Palazzo Chigi.
Trovo sempre più somiglianze con uno stanco periodo di decadenza morale, culturale e di crisi economica dei primi del Novecento. Con quella società teutonica che portava nei sacchi migliaia di monetine nelle carriole per pagare la spesa quotidiana, che diede fiducia al primo imbianchino di turno che pensò di prendere il potere prima con un colpo di stato male organizzato, finì in carcere, scrisse un libro che torna di moda (per esaltazioni becere invece che per attento studio), venne sottovalutato dal governo bavarese (“La belva è senza artigli ormai”) e che finì con l’avere l’appoggio degli industriali e dei proletari per far fuori il parlamentarismo e la tribolata democrazia germanica.
Non potrà tornare forse mai più in quelle forme, con quegli eccessi e accenti di odio.
Ma non è molto lontano il tempo in cui nella piazze le istituzioni democratiche, decandenti anche in Italia ma pur sempre democratiche, venivano mandate “a fanculo” da decine di migliaia di persone galvanizzate dai palchi con urla e battute comiche.
L’autoritarismo che nasce dal popolo è peggio, sempre peggio di quello che un singolo uomo si attribuisce mentre è al comando.
In quest’ultimo caso c’è una coscienza dell’usurpazione della sovranità popolare. Ma nel primo caso è proprio la sovranità popolare a dargli un mandato per essere pugnalata e sostituita con una finzione democratica.
Che siano i mercati a farlo è naturale. Che sia il popolo italiano a suicidarsi ancora una volta è una nemesi della storia che sembra non avere fine.
MARCO SFERINI
21 giugno 2016
foto tratta da Pixabay