Francesco Totti, persona intelligente, ha dichiarato che «avere una visione lungimirante per il futuro di Roma significa perseguire obiettivi importanti, tra questi c’è sicuramente la candidatura alle Olimpiadi». E ha aggiunto: «Dare ai nostri figli la speranza di rinascita è un dovere di tutti quelli che ci governano e ci governeranno». Ora, se è del tutto evidente che il futuro dei figli non dipende in massima parte dalle Olimpiadi, dovrebbe essere altrettanto chiaro che le medesime Olimpiadi non si identificano con il futuro di Roma, di cui nella migliore delle ipotesi possono costituire solo un evento, sia pure rilevante.
Di fronte a un declino che sembra irreversibile, e che si esprime nel peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei romani, la questione decisiva – ce lo dice lo stesso capitano – è «avere una visione lungimirante per il futuro di Roma». Vale a dire una strategia politico-culturale che dia una prospettiva a questa città unica al mondo e ai suoi abitanti, il cui destino non può essere affidato al sentiment dei mercati e al dominio della rendita immobiliare e finanziaria.
Ma quando si sostiene, come fa il direttore del Messaggero Cusenza, che le Olimpiadi sono «uno spartiacque» nel destino di Roma, addirittura «un passaggio cruciale della sua storia», questa è la controprova inoppugnabile dell’assenza di qualsiasi strategia: la classe dominante in città non ha alcuna visione lungimirante della città. E si affida al miracolo del “grande evento” organico agli interessi della rendita, dei quali il Messaggero di Caltagirone è portavoce.
Dalle giunte Rutelli-Veltroni inventori del “modello Roma” siamo andati avanti a colpi di “grandi eventi” – sportivi, culturali, religiosi – e oggi raccogliamo i frutti. Il volto di una delle principali metropoli europee è stato gravemente sfregiato e il suo declino sta toccando il fondo: «una città devastata e ridotta allo stremo». Non è il giudizio di un gufo, ma del rispettabile Rutelli a conclusione del “modello Roma”, che oggi si vuole riproporre nonostante abbia generato i mostri di Alemanno dopo un fallimento evidente
Siamo alle solite. Prima del “grande evento” si fanno balenare ogni sorta di meraviglie. Per poi raccogliere i cocci e conteggiare i debiti a carico dei romani e di tutti gli italiani. Ma questa volta le previsioni sono davvero entusiasmanti e imprevedibili. Pensate che secondo il famoso Ceis dell’Università di Tor Vergata, che utilizza il Vane, «un metodo innovativo mutuato dalla Banca Mondiale» (ovvio che senza una banca non si va lontano), il ritorno delle Olimpiadi sarebbe di 7,1 miliardi: «è come se si prestassero dei soldi al tasso del 31%», esulta il Messaggero. Mavà?!
E non basta. «Il Pil della Regione, inclusa Roma, aumenterebbe del 2,4%», «i nuovi posti di lavoro […] sarebbero di 177 mila unità» e «il reddito delle famiglie, soprattutto quelle romane, salirebbe a 10,7 miliardi di euro». Una vera manna, un paradiso terrestre difficile da immaginare. Senza scomodare la statistica di Trilussa, resta il fatto – precisa l’organo di Caltagirone – che secondo il Vane si possono «valutare anche benefici derivanti da beni intangibili, come l’orgoglio generato dai Giochi per i cittadini». Eccezionale, veramente! Peccato però che il miracoloso Vane non sia in grado di farci sapere quanto di questo orgoglio vada a finire nelle tasche di chi non arriva alla fine del mese.
La verità è che il troppo stroppia, come dicono gli esperti. E questa raffica di mirabolanti previsioni pseudoscientifiche mediaticamente compulsive tradiscono un diversivo neanche troppo mascherato: spostare l’attenzione degli elettori chiamati al ballottaggio dalla condizione reale della città e della loro vita, nel tentativo di farli pronunciare a favore di una improbabile prospettiva avveniristica. Con il risultato di rafforzare il sistema di potere esistente, oggi impersonato da Renzi e da chi a livello locale lo rappresenta.
Si cancellerebbe in tal modo ogni visione lungimirante del futuro di Roma. Per la semplice ragione che non si può cambiare il destino di questa straordinaria città se non si pone al centro del progetto la questione sociale, vale a dire la qualità della vita delle persone e la lotta alle disuguaglianze e alla povertà, imponendo dei limiti alla rendita e al profitto secondo quanto la Costituzione prevede. Questa è la stella polare del cambiamento. Priorità al lavoro, quindi, come è scritto con chiarezza nel programma di Fassina.
Seppure non premiato da adeguati consensi, questo è il tema su cui occorre insistere. Priorità al lavoro significa cancellare dal volto di Roma ferite purulente di cui colpevolmente si preferisce tacere: come il caporalato e il mercato delle braccia tornati nelle periferie, contro i quali negli anni 50 lottò duramente il segretario della Cgil e consigliere comunale Giuseppe Di Vittorio; come il lavoro nero dei bambini abbandonati, che vivono e muoiono nel sottosuolo della metropoli.
Significa, in pari tempo, puntare su Roma come centro del patrimonio culturale accumulato, ma anche come motore della ricerca e della scienza, dell’innovazione sociale e tecnologica, mettendo a valore le sue enormi risorse, oggi disperse e umiliate: senza di che per le generazioni future non c’è avvenire. Significa accrescere e qualificare il lavoro delle donne, che soffrono di una disoccupazione tra le più alte d’Europa. Significa consumo zero del territorio, e in pari tempo valorizzazione dell’agricoltura diffondendo forme cooperative e comunitarie nella produzione e nei servizi. Significa tante cose ancora, essendo consapevoli che la persona senza lavoro perde la dignità e che nella metropoli senza lavoro dilaga il degrado.
È un percorso difficile, di cui il voto costituisce un passaggio ineludibile sebbene non esclusivo. Recarsi alle urne è necessario, ma non basta. È indispensabile anche la lotta, e una forza politica che la organizzi. A questo dovrebbe servire la sinistra.
PAOLO CIOFI
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