Un quarto di secolo. Tanto è passato da quel 1991 quando iniziarono le guerre nel Golfo Persico, almeno quelle di “nuova generazione”, quelle che l’amministrazione americana ha promosso per farsi largo nel dominio economico dell’area della Mezzaluna fertile.
La televisione di allora ne diede notizia quasi ne fosse sorpresa dopo l’occupazione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. L’aggressione irachena all’emirato dei petroldollari fu, si sostiene ancora oggi, la causa della guerra. In realtà fu il pretesto che venne, volontariamente o meno, offerto agli Stati Uniti per agire e mettere in campo la macchina bellica di stanza in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.
Il Kuwait veniva rivendicato come diciannovesima provincia di uno stato laico, quell’Iraq terribile dove il partito Baath, di ispirazione socialista, aveva creato una rete sociale di protezione per la popolazione e dove il diritto alla salute ed allo studio, tra gli altri, erano quindi garantiti.
Contraddizioni che nascono in un mondo dove in alcuni paesi si costruiscono le statue della libertà e si approva il segregazionismo razziale, ed in altri si costruisce lo stato-sociale e si gestisce il potere oligarchicamente ma non meno, certamente, che in nazioni che si ergono a campionesse dei diritti sociali e civili.
Allora il dibattito si incentrò da subito su “chi aveva il diritto di”: di occupare uno Stato sovrano, di formare una coalizione di liberatori, di rispondere alla chiamata alla salvezza mondiale da parte di una Organizzazione delle Nazioni Unite vincolata dal diritto di veto delle potenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, ma soprattutto da debiti e crediti degli Stati Uniti con il Palazzo di Vetro.
I buoni e i cattivi scendevano in campo come categorie rinnovate della storia. Etica, politica, strategia militare, interessi economici prima di tutto: ogni aspetto della guerra si legava a doppio filo ma veniva filtrato dalla propaganda di un parterre di televisioni che facevano a gara per avere le immagini della CNN e per ritrasmetterle prima di chiunque altro.
Fu la prima vera guerra che abbiamo vissuto quasi in diretta: con Emilio Fede che strabuzza gli occhi e urla: “Hanno attaccato!”. Con i telegiornali in edizioni speciali permanenti, con la nascita dei salotti televisivi pieni di cartine, mappe, direttrici di avanzata da un lato della Guardia repubblicana di Saddam Hussein e dall’altra delle truppe americane che entrarono in Iraq solo dopo aver fatto stragi di militari e civili con bombe al fosforo.
Ricordo una copertina de “il manifesto” di qualche anno dopo che denunciava proprio la sperimentazione sul campo di queste armi di distruzione di massa: c’era il volto quasi scheletrico di un soldato iracheno. Se ne vedevano chiaramente le orbite dentro alle cavità ossee.
Era il volto di uno degli oltre ventimila morti da parte irachena a fronte di meno di ottocento morti della coalizione della libertà sotto benedizione dell’Onu. La guerra delle cifre si è fermata su piccoli numeri, su quelli dei piloti italiani abbattuti in territorio iracheno, su quelli dei missili Cruise sparati dalla flotta americana, dalle basi Nato e su quei pochi che Saddam Hussein riuscì a far partire dai dintorni di Baghdad verso Israele e che finirono quasi tutti per essere intercettati e distrutti.
A distanza di venticinque anni, non è tanto interessante osservare che le guerre continuano a determinare le fasi di crescita o involuzione della politica e che sono abilmente manovrate da chi detiene i poteri economici su questo pianeta. A distanza di venticinque anni è forse più interessante prendere atto che tutto ciò che i popoli erano stati indotti a credere sulle motivazioni dello scoppio dei conflitti nel Golfo si è rivelato completamente falso, fondato su pretesti e prove create per avere le motivazioni necessarie ad “esportare la democrazia”.
Niente di più e niente di meno di ciò che fece Adolf Hitler per avere la motivazione utile per aggredire la Polonia: far finta che dei soldati tedeschi travestiti da polacchi avessero attaccato una stazione radiofonica nella Slesia. Il tragico teatro aveva aperto il sipario e la guerra poteva cominciare, in barba a trattati internazionali e leggi sul rispetto dei confini e delle nazionalità.
Le guerre moderne, quelle che oggi si combattono in Medio Oriente e che hanno come infelice protagonista Daesh, il califfato nero, sono guerre in cui il ruolo della copertura mediatica della menzogna è un convitato di pietra. C’è sempre: dietro un video, una notizia che circola su Internet, un comunicato del califfo, una qualche azione che si sviluppa nel ginepraio della guerra civile siriana.
Dietro ad una guerra fatta con le armi ce n’è sempre una fatta con le transazioni finanziare, con il petrolio, con gli oleodotti e qualunque altra ricchezza commerciabile. C’è sempre un dominio che vuole imporsi su un altro dominio.
La pantomima di Daesh può continuare: del resto il regista è sempre lo stesso. Gli sfuggono gli attori di mano, ma il copione ormai è scritto.
MARCO SFERINI
17 gennaio 2016