Il voto europeo, non si presta a giudizi semplificati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Francia si è trattato di un vero terremoto; nel contempo, pur marcando inquietanti successi, le destre antieuropeiste non travolgono i rapporti di forza nel parlamento europeo, ove aumenta di consistenza l’area di un europeismo critico da sinistra attorno a Tsipras. I popolari, pur restando primi, indietreggiano e non poco, la stessa cosa fanno i socialdemocratici, seppure in misura minore. Nel contempo per la prima volta dal 1979 la percentuale dei votanti non è scesa, se non di un decimale, attestandosi sul 43%. In Italia è invece diminuita fortemente, del 7,7%, scendendo sotto il 60% per la prima volta in una elezione di carattere generale.
La strada delle larghe intese sul modello tedesco continua a essere la più probabile in quel di Strasburgo, anche se le figure di riferimento possono cambiare. Né Juncker né Schulz escono dalla contesa in grande salute ed è possibile che il ruolo di presidente della commissione possa andare ad altri. Matteo Renzi progetta di chiedere il posto per qualcuno dei suoi, in subordine di aspirare alla carica di ministro degli esteri, in sostituzione della scialba Ashton, o di avere il ricco portafoglio dell’Agricoltura. Insomma il partito di Renzi si prepara a contare di più in Europa, al di là del prossimo semestre italiano. Mentre il duopolio Francia – Germania su cui si era fondata tutta la costruzione politica, economica e istituzionale europea da Maastricht in poi è travolto dal disastro francese.
Questi cambiamenti e nello stesso tempo il perdurare e il confermarsi di vecchie tendenze, producono un effetto di spiazzamento anche nei giudizi di intellettuali da sempre attenti alla dimensione europea (si parva licet componere magnis). Ulrich Beck proclama la fine dell’austerità. È vero che la Merkel appare più sola nel contesto europeo; soprattutto la Bce nella sua imminente riunione dei primi di giugno si appresta ad abbassare verso lo zero i già bassissimi tassi di interesse e di renderli negativi per ostacolare i depositi delle banche presso l’istituto di Francoforte che inibiscono il credito alle imprese e alle persone; dunque che qualche misura contro la deflazione e la recessione verrà presa. Ma risulta difficile pensare che una teoria come quella dell’austerità espansiva, falsificata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere superata per autoriforma, senza che compaia a contrastarla una teoria almeno di uguale forza e capacità di attrazione.
Questa c’è, ma per ora vive solo nei programmi che hanno portato all’affermazione le liste che facevano riferimento a Tsipras e poco più. Quello che è vero, e le conseguenze sono ancora peggiori, è che le teorie del rigore rivivono nella dimensione della precarietà espansiva, ovvero delle devastanti misure strutturali che precarizzano definitivamente il lavoro, su cui il nostro governo si è particolarmente distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Touraine, prima invoca un sussulto repubblicano in Francia per contenere l’ondata populista dei Le Pen, poi consiglia di dare più poteri al primo ministro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scombiccherata compagine di Hollande, il che provocherebbe esattamente l’effetto opposto se è vera la sua analisi di una “connessione sentimentale” fra il Fn e gli strati popolari.
In questo quadro assume una importanza decisiva l’affermazione di liste che fanno riferimento a Tsipras o che chiedono di fare gruppo assieme – come “Podemos” la formazione elettorale che trae origine dal movimento degli indignados spagnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 deputati) – e naturalmente il risultato di Syriza che lo conferma primo partito in Grecia. È dall’insieme di queste forze che bisogna ripartire per mettere seriamente in crisi le politiche di austerità, evitare la loro camaleontica riproposizione e invertire la rotta verso politiche anticicliche, solidali e occupazionali.
La vicenda italiana è contrassegnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vecchia Dc aveva toccato in un lontano passato e dalla sconfitta secca del M5Stelle che cede soprattutto voti all’astensione. Chi aveva pensato a un neobipolarismo Renzi-Grillo deve rivedere le sue analisi. Verrebbe da dire che dal bipartitismo imperfetto di cui parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul duopolio Dc-Pci (con la conventio ad excludendum nei confronti di quest’ultimo) si stia passando a un monopartitismo imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei suoi voti.
In questo quadro è evidente che l’espressione stessa centrosinistra, con o senza trattino, ha perso ogni significato. Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. Veltroni non ha torto di gongolare, anche se il partito a vocazione maggioritaria che lui aveva pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si realizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un partito unico con il Pd, finge di non accorgersi di predicare una semplice confluenza.
Il quorum de L’altra Europa con Tsipras ha interrotto la serie dei fallimenti elettorali a sinistra. È vero che è un risultato risicato e che il numero di voti conquistati non fa la somma delle organizzazioni che hanno dato il loro appoggio alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di consensi di questi micro partiti e la scelta vincente di dare vita a una lista di cittadinanza.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio senza resurrezioni. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Aprire una fase costituente di una nuova forza di sinistra, dal basso e dall’alto, sul piano della produzione culturale e dell’elaborazione politica, come su quello della prassi nei movimenti è necessario e possibile.
ALFONSO GIANNI
da il manifesto