I novantasei anni dalla fondazione del PCI (Livorno 21 gennaio 1921, la denominazione esatta era quella di Partito Comunista d’Italia) debbono essere ricordati, e di seguito si troverà un’analisi politica sicuramente parziale riguardante le vicende di quel Partito.
In premessa però è necessario ricordare come, nell’attualità, l’eterna transizione dallo squilibrio italiano sia ritornato al punto di partenza.
Per decenni il nodo da sciogliere è stato indicato nel fraintendimento riguardante la capacità di decisione dell’esecutivo a fronte della paralisi parlamentare, ossia un governo con poteri comparabili ad altri paesi europei.
La vittoria del NO al referendum è stata, invece, la sconfessione del primato dell’esecutivo, e deve essere letta come domanda di democrazia rappresentativa, ritorno alla legge elettorale proporzionale, governo e opposizione parlamentare, come indicato dalla Costituzione Repubblicana.
Nelle sue motivazioni sociali il voto è stato anche un pronunciamento chiaro (in particolare al Sud) contro la ristrutturazione europea.
Il governo Renzi puntava a ridimensionare il piano legislativo e riportare al centro il potere di spesa, in modo da trattare con l’UE i termini della ristrutturazione.
Questo disegno è stato sconfitto all’interno di un quadro di drammatico peggioramento nelle condizioni generali del Paese e di materiale impoverimento delle grandi masse.
L’esito referendario ci ha però semplicemente consegnato soltanto alla “pars destruens”.
L’assenza della sinistra, comunista e socialista, dal quadro politico italiano rende problematica la possibilità di principiare, stando all’opposizione e senza alcuna velleità di ricostituzione di un impossibile centro-sinistra, una qualche forma di “pars costruens” sul terreno dell’aggregazione, dell’identità, del programma politico.
In questo senso ragionare su ciò che è stato il PCI, nel bene e nel male, nel chiaro e nello scuro, può (e deve) ancora essere utile alla stessa prospettiva futura.
L’identità: Sistema di valori? Identità Politica? Senso di appartenenza a una grande comunità solidale’? Quale il lascito del PCI, nella realtà quotidiana vissuta da coloro che sono stati militanti di quel partito, a distanza di oltre vent’anni dal suo scioglimento (uno “scioglimento negato”, mai formalizzato ma mascherato da “trasformazione”, ma in realtà reso reale ed evidente dal rifiuto di centinaia di migliaia di donne e di uomini a proseguire il proprio impegno politico in un diverso contesto)?
L’identità del PCI fu sicuramente determinata dalla felice scelta compiuta con la svolta del “partito nuovo” imposta da Togliatti al momento del suo rientro in Italia nel marzo del 1944 (scelta che aveva già i suoi prodromi nelle tesi del III congresso – Lione 1926).
Pur tuttavia è ancora il caso di soffermarci su quella storia cercando di partire da un assunto di fondo: quello del PCI forma politica del comunismo italiano (pur in presenza di una complessità di soggetti che al movimento comunista e alle dimensioni critiche presenti al suo interno si sono richiamati) collegando quel livello d’analisi con la riproposizione di una ricerca sulle ragioni del declino e della perdita d’identità.
La ragione per la quale si può considerare il PCI quale effettiva forma politica compiuta del comunismo italiano distinta comunque dal modello sovietico (così come questo si era assestato al compimento della teoria del “socialismo in un solo paese” e successivamente nel confronto con il modello cinese) risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.
Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.
Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo.
La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.
Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza.
Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale.
La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato.
Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.
L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.
Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, bel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.
In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.
Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1977) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso.
La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale.
Questo tipo di impostazione consentì, durante il periodo della segreteria di Togliatti, di articolare il rapporto con l’URSS, pur con evidenti diversità di posizioni all’interno del gruppo dirigente del partito, che si riflettevano nel rapporto con Mosca durante i periodi più tesi della “guerra fredda” (si pensi sotto questo aspetto alle posizioni di Secchia e, in seguito, a quelle di Cossutta, pur rappresentando quest’ultimo una visione molto più articolata di quella radicata in un’ala del partito richiamantesi alla “rivoluzione tradita” nella Resistenza e poi al pericolo di guerra negli anni’50).
I successori di Togliatti (come scrive anche Guido Formigoni nel suo recentissimo e splendido “Storia d’Italia nella guerra fredda”) tennero sostanzialmente fede a questo tipo di impostazione, ma articolandola a mano a mano e portandola avanti fino al debole esperimento “eurocomunista” tentato nel corso della prima parte della segreteria Berlinguer (la fase contraddistinta, sul piano interno, dalla proposta di “compromesso storico” fino a quella di una “solidarietà nazionale” attuata sotto la stretta della crisi economica e del terrorismo fino al culmine rappresentato dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro).
In questo modo però il PCI non riuscì a superare il guado di un’ambiguità di fondo esercitata tra la critica al modello statuale e sociale sovietico senza rompere però l’appartenenza al mondo comunista internazionale.
Significativo, sotto questo aspetto, l’arretramento progressivo di posizione rispetto alla vicenda cecoslovacca del 1968, con una differenza rimarchevole tra l’atteggiamento assunto nei giorni precedenti e immediatamente successivi all’invasione di Praga (soprattutto per impulso del segretario Longo) e il successivo rifluire sulla linea della “normalizzazione”.
In questo senso il limite del PCI, anche a riguardo dell’analisi al riguardo delle linee di mutazione del capitalismo in Occidente e della qualità delle lotte operaie e studentesche in Italia, fu anche quello di non riuscire a elaborare un confronto reale con posizioni diverse espresse nell’ambito della sinistra che avrebbero potuto arricchire il contesto teorico – politico come quelle espresse dalla sinistra socialista soprattutto per merito di Raniero Panzieri e dalla sinistra comunista, prima interna e poi esterna, rappresentata dal gruppo del “Manifesto”.
Al riguardo della rottura con il gruppo del “Manifesto” va sicuramente riconosciuta una capacità di articolazione del dibattito a livello di gruppo dirigente e nel corpo del partito ( alla fine si svolsero ben due comitati centrali per arrivare alla radiazione di Rossanda, Pintor, Natoli, Caprara, Milani e Magri) ma si trattò di un confronto tutto teso verso i parametri di condivisione o meno della linea del partito e non di reale compenetrazione delle posizioni, così come del resto era già accaduto all’XI congresso con la mediazione al riguardo della evidente difformità di posizioni (in particolare nell’analisi del quadro politico italiano) fra Amendola e Ingrao: a quest’ultimo fu lasciato, alla fine, soltanto lo spazio del suo celebre “compagni, non mi avete persuaso”.
La linea del PCI fu dunque orientata, nel corso dei decenni centrali del secolo scorso e fino alla vigilia della liquidazione del partito, da almeno quattro grandi coordinate strategiche, che possono essere così riassunte:
1) Il rapporto tra la teoria e la prassi.
Questo elemento ha rappresentato un punto decisivo nell’identità del PCI, legato all’idea dello sviluppo delle forze progressive, di una scienza in grado di produrre una tecnica sulla basare una linea di sviluppo “naturalmente” progressista.
2) L’intreccio tra politica e cultura.
Un intreccio molto stretto, al limite dell’indissolubilità, quello tra politica e cultura, con una concezione della cultura di tipo “classico”, di studi robusti e solidi, riservando alla base sociale il livello “nazional – popolare”.
Questo elemento lo si rileva osservando i diversi livelli della pubblicistica del PCI e delle espressioni di sinistra affini al partito, in una scansione ben definita rispetto agli obiettivi da raggiungere.
Questa “classicità” e “solidità” dell’interpretazione culturale, stava anche all’origine di ritardi nel riconoscere il ruolo delle avanguardie (sia in campo letterario e artistico), sia nell’ammettere situazioni ai limiti e ai margini dell’ortodossia “socialista” (i casi più noti sono clamorosi e non è il caso di ricordarli, se non per rammentare che anche in periferia vi furono interpretazioni del rapporto cultura/politica e del suo sfociare nel “totus politicus” tali da suscitare difficoltà e incomprensioni.
3) La relazione tra ideologia e razionalità politica.
La continua ricerca della trasformazione in linea politica dell’ideologia può far definire il PCI come un partito “neo – illuminista”, fortemente impregnato di positivismo e contrario all’idealismo.
In realtà il PCI presentava al suo interno una molteplicità di modelli culturali (si pensi alle diverse case editrici cui il partito faceva capo, al di là delle “ufficiali” Rinascita e, successivamente, Editori Riuniti) che, appunto, l’applicazione della linea politica concreta permetteva di far convivere fruttuosamente, attraverso un meccanismo davvero definibile come “neo – illuminista” (non a caso Togliatti amava Voltaire e fu autore di una delle più importanti prefazioni edite in Italia del “Trattato della tolleranza”).
4) Il peso del filtro della concezione di classe nell’agire politico.
Questo fattore è stato sicuramente presente, in una dimensione massiccia, sulla realtà operativa del Partito fino agli anni’70 inoltrati.
Questo quadro così sinteticamente riassunto non può però far dimenticare i limiti riscontrabili nell’impostazione politica del PCI: si produsse, infatti, un elemento di ambiguità sul terreno del “primato del partito” prevalente sullo sviluppo della ricerca culturale e della produttività del dibattito. “Primato del partito” che, alla fine si concretizzò nella sovrapposizione tra i quadri del partito a livello professionale e la militanza di base, laddove il rapporto – alla fine – si stabilì sul terreno governanti /governati creando anche, in ispecie nelle situazioni periferiche delle “zone rosse” delle vere e proprie sacche di detenzione del potere: amministratori locali, sindacalisti, cooperatori.
Questo complesso insieme di ragioni portò ad un sostanziale “moderatismo” nell’azione politica, ad un quadro di “sospetto” rispetto ai movimenti sociali emergenti all’inizio degli anni ’70 (che pure alla fine premiarono il Partito in termini elettorali) e, di conseguenza, al fallimento della strategia del “compromesso storico” ridottosi nel concreto all’interno della linea, governativista e riduttivamente politicista, della “solidarietà nazionale” contraddistinta dal “governo delle astensioni”.
Le ragioni e l’esito del declino
Dall’inizio degli anni’80 l’emergere di questioni e problemi cui si è già accennato e sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.
Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.
A questo punto intervenne in ritardo l’elaborazione da parte della segreteria Berlinguer di una linea di alternativa il cui procedere risultò bruscamente interrotto nell’occasione della tragica morte del Segretario del Partito.
Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale.
In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi a Ovest e nel Nord Europa, principale per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico.
L’arretramento sul punto di valutazione riguardante l’Europa occidentale nelle sue espressioni di governo borghese quale avamposto degli USA nell’ambito della logica dei blocchi e l’accettazione dello strumento “Unione Europea”, nei suoi vari sviluppi, come fattore della distensione a livello internazionale ha sicuramente rappresentato uno dei temi sui quali, ben prima della caduta del muro di Berlino, il PCI ha perso identità propria per allinearsi e omologarsi nella dimensione sistemica.
In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni’80 l’insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie.
Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell’opinione pubblica.
E’ quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui a esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.
Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e partiti ideologici per eccellenza erano considerati, in Italia, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica.
Alle “finalità”, e al loro presunto retroterra ideologico, andava così contrapposta l’idea della presunta “concretezza” dell’apertura al nuovo, al moderno.
Al punto da presentare, sulla scena del confronto politico, un’inedita contraddizione tra “vecchio” e “nuovo”.
Il terzo punto riguarda, infine, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via, nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno.
Si era passati, infatti, dalla domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, a una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali.
Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno.
Per “sbloccare il sistema politico” il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti.
Un filone, quello dell’omologazione al decisionismo, che aveva già avuto il suo progenitore in Bettino Craxi, sia nel ruolo di segretario del PSI sia in quello di presidente del Consiglio (“meriti e bisogni” per smontare il filtro di classe, “grande riforma” per introdurre la vocazione presidenziale).
Nella direzione dell’omologazione del partito al sistema e all’idea dello “sblocco del sistema politico” il primo segnale concreto, dopo anni di stagnazione del dibattito, fu fornito con l’affrettata sostituzione di Natta alla segreteria e l’avvento dei cosiddetti “nuovisti” (molto divisi al loro interno) da Occhetto (storditamente e colpevolmente fautore del sistema elettorale maggioritario), a D’Alema (quest’ultimo poi da presidente del Consiglio, nel 1999, avrebbe sposato la linea liberal – atlantista di Clinton e di Blair, fino al punto di far partecipare aerei italiani ai bombardamenti NATO sulla Jugoslavia nel corso della guerra del Kosovo) al filo – kennedyano (fautore dell’individualismo del self – made – man e del primo approccio alla politica –spettacolo) Walter Veltroni, in seguito primo segretario del PD e sostenitore dell’idea della “vocazione maggioritaria”, oppositore anche di una linea di socialdemocratizzazione: l’apprendista stregone, in sostanza, del “mostro” Frankestein – Renzi e del suo “giglio magico”.
Tornando però al filo del discorso riguardante i tardi anni’80 :erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano.
Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni’80, a un punto di estrema gravità.
Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi con lo scioglimento del partito, dal maggioritario (del quale il PDS fu acritico e incauto sostenitore), al presidenzialismo (esercitato direttamente, ponendosi ai limiti della Costituzione Repubblicana dal primo Capo dello Stato proveniente dalla storia del PCI), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo.
Il PD, infatti (usando addirittura e incredibilmente la struttura delle “primarie” per la selezione del gruppo dirigente, inteso come gruppo “elettorale”) si è reso pienamente competitivo sul terreno di quella concezione esaustiva della “governabilità”attraverso un meccanismo arrestato dall’esito del referendum dello scorso 4 Dicembre allorquando il PD era arrivato sull’orlo di affermare un regime di tipo personalistico – autoritario attentando alla stessa identità della Costituzione Repubblicana.
Nel frattempo è stata completamente soffocata l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.
Questo vuoto che ormai insiste da molti anni sulla scena della storia appare particolarmente importante nel momento in cui sembra mutare lo scenario complessivo a livello planetario dove emergono due livelli di frattura inedite: quella tra la gestione del ciclo capitalistico in senso di finanziarizzazione globale com’è avvenuta dagli anni’80 del XX secolo in avanti e la probabile proposizione di una “logica dei blocchi” militari, politici, economici (proprio nel giorno in cui si scrivono queste note, si insedia alla presidenza USA Donald Trump) e quella del vero e proprio cozzo tra ricerca scientifica, tecnologia, produzione industriale, economia e politica che arriva a mettere in dubbio l’essenza della filosofia dello sviluppo che ha contrassegnato i progressisti e la sinistra fin dal tempo della prima rivoluzione industriale.
FRANCO ASTENGO
21 gennaio 2017