Se è uno sciopero quello che l’8 marzo riempirà le piazze di tante città del mondo, è sicuramente uno sciopero del tutto particolare, così come particolare e sorprendente è il femminismo che lo promuove ormai da tre anni. La novità è già nel suo atto di nascita, in Argentina, il 19 ottobre 2016. A far incrociare le braccia alle donne che daranno vita alla rete Ni Una Menos, non sono la disparità salariale o le discriminazioni sul lavoro, ma lo stupro e l’omicidio di una sedicenne, Lucia Pérez.
E allo stupro si aggiungerà in seguito la richiesta di legalizzazione dell’aborto. Con quella risposta imprevista prendeva corpo un accostamento inedito tra realtà che siamo abituati a considerare separatamente: la violenza contro le donne e le rivendicazioni sindacali, i residui arcaici di un dominio maschile che passa attraverso le vicende più intime e il sistema di sfruttamento che è alla base dell’accumulazione capitalistica.
Esperienze rimaste per secoli legate al privato e al destino femminile, come la sessualità e la maternità, incontrandosi con organizzazioni di carattere sociale ed economico era inevitabile che si modificassero reciprocamente. Non era la prima volta che la politica veniva scossa e ridefinita da quel retroterra che ha creduto di lasciarsi alle spalle, consegnato a una sorta di immobilità geologica. Con la “dissidenza giovanile” del Sessantotto e col femminismo diventavano “già politica” la persona, la vita dei singoli e quella materia segreta, imparentata con l’inconscio, che sta tra natura e storia.
La ricerca di “nessi” tra forme diverse di oppressione e di dominio, e il riconoscimento che il sessismo le attraversa tutte, sia pure spesso in modo conflittuale, allora non fu possibile, e si è dovuto aspettare mezzo secolo per assistere a un singolare scambio delle parti: il femminismo che si appropria dello sciopero, rimasto finora legato a rivendicazioni sindacali, mentre sotto i suoi slogan si vengono a collocare soggetti politici diversi, accomunati dalla volontà di liberare il mondo da violenze sessuali e di genere, ingiustizie sociali, odio razziali, cattiva educazione, devastazione ambientale, governi autoritari.
“Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo” è già in sé una dichiarazione che va oltre la specificità della violenza sessista. Dice della svalutazione di quella metà del genere umano a cui è toccato in sorte l’identificazione col corpo, con la funzione riproduttiva della specie, la cura dei figli, della famiglia e della casa, un lavoro non visto come tale ma come “dono d’amore”. Ma dice anche della violenza con cui una parte sempre più esigua degli umani ha costruito la sua ricchezza: colonizzando, sfruttando, impoverendo la maggioranza dei propri simili. Lo sciopero, come astensione da tutte le attività produttive e riproduttive, diventa così una straordinaria pratica non solo di rivendicazioni economiche, ma di autocoscienza collettiva, la scoperta di una verità che sappiamo e che continuamente cancelliamo: una giornata senza le donne, i migranti, i lavoratori malpagati, i precari, e il mondo si fermerebbe.
Scrive Angela Davis nel suo libro La verità è una lotta costante (Ponte alle Grazie, 2016): “Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. E implica molto di più del genere. Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai postcolonialismi e all’abilità, e un quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare.”
Negli appelli e documenti di Non Una di Meno si legge che lo “sciopero è di tutti”. Sarebbe riduttivo intendere questa affermazione solo come alleanza tra movimenti diversi, ognuno con la propria identità, o, al contrario, come inglobamento di tutti dentro la lotta delle donne. Se il femminismo si può considerare oggi il principale “riferimento” per un processo di liberazione comune a molteplici soggettività, è perché le sue pratiche -il partire da sé, l’attenzione al corpo, ai sentimenti, all’interiorizzazione di quegli stessi bisogni che vengono coltivati dall’apparato di dominio- permettono di interrogare le contraddizioni che si aprono quando le diverse appartenenze, di sesso, genere, razza, classe, vengono calate nel vissuto personale, nell’esperienza dei singoli. Sappiamo che si può essere al medesimo tempo anticapitalisti e razzisti, antirazzisti e misogini, omofobi.
La radicalità e la forza del femminismo sta nell’attraversare le lotte, mantenendo ferma l’idea che non c’è modificazione del mondo se non si intacca quel sedimento di storia che ogni singolarità incarnata si porta dentro, se non si sottrae alla solitudine e al silenzio il peso di violenze considerate finora come “private” e “naturali”.
Non si può costruire uno sciopero, scrive Non Una di Meno di Torino, dentro e fuori casa, uno sciopero dai/dei generi, “se non partendo da noi, dalle nostre vite, dai nostri vissuti (…) muovendo da sé non si può che incontrarsi e incrociarsi, anche nelle differenze e nella distanze”
Sappiamo bene che lasciare per qualche ora il posto di lavoro non è come allontanarsi dalla cura di un bambino, di un anziano o un malato, e questo vale in particolare per le donne, per lo più straniere, badanti e colf, presenti ormai in molte famiglie. Per questo è importante, come scrivono Marie Moise e Sara R.Farris (Jacobin n.2, primavera 2019) che lo sciopero non venga inteso “come mera astensione dal lavoro di cura, ma come pratica collettiva di interruzione della privatizzazione, femminilizzazione razzializzazione di quel lavoro”.
Altrettanto significativo, sotto l’aspetto sia materiale che simbolico, è che in quella giornata siano gli uomini, possibilmente nelle piazze dello sciopero a prendersi cura dei figli e del cibo, prefigurando una convivenza sociale che assume come responsabilità collettiva quella che è stata la consegna “naturale” della dipendenza e fragilità umana a un sesso solo.
LEA MELANDRI
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