Questo non è il tempo per fare della filosofia. Devo averlo sentito in qualche dibattito televisivo. Un giornalista apostrofava così chi tentava di operare dei distinguo nella questione israelo-palestinese, di cercare di comprenderne ancora una volta i meccanismi, quasi degli automatismi che, a dire il vero, questa volta in quanto a rapporto tra causa ed effetto proprio sono del tutto saltati.
L’inatteso, violento, terroristico e criminale attacco di Hamas al territorio ed alla popolazione di Israele ha lasciato di sasso chiunque. La brutalità delle uccisioni che le Brigate Ezzedin al Qassam hanno messo in pratica tra le famiglie che vivevano nei kibbutz al limite della linea di confine con la Striscia di Gaza, è veramente paragonabile, per efferatezza, a quella che il DAESH perpetrava nei territori siriani ed iracheni occupati.
Ma ciò non significa che si possa fare un parallelismo assoluto e incontestabile tra Hamas e ISIS. E questo non tanto perché si debba distinguere cavillosamente tra terrorismo e terrorismo, tra ferocia e ferocia, tra orrore ed orrore.
Sarebbe di un cinismo inenarrabile pensare di poter individuare dove c’è più o meno brutalità nelle azioni di organizzazioni che si pongono come obiettivo la distruzione di interi popoli, di Stati, di comunità per il proprio presuntuoso predominio e la propria superiorità etnico-etico-religiosa.
Tuttavia, le differenze esistono e, se osserviamo con cautela le dinamiche della recente storia mediorientale, ci possiamo rendere conto che Hamas, diversamente dal cosiddetto “Stato islamico“, è parte di un ultra ventennale processo di assimilazione dell’indipendentismo palestinese da parte di una forza politica e militare che affonda le sue radici nei Fratelli mussulmani di egiziana memoria.
Una intrusione in una epopea nazionale che è sempre stata, fin dalla sua nascita, di stampo prettamente laico e che, proprio in questo mutamento di prospettiva, ha aperto nel campo palestinese un fronte contrapposto tra Hamas e OLP, tra Hamas e ANP.
Per quasi due decenni Israele ha costretto due milioni e mezzo di palestinesi nella prigione a cielo aperto di Gaza. Per quasi venti anni ogni cosa e persona nella Striscia che affaccia sul Mediterraneo è dipesa dallo Stato ebraico: dall’elettricità al gas, dai carburanti alle materie prime, dall’acqua ai generi di consumo, dalle risorse naturali a quelle tecnologiche.
Quando Sharon fece abbandonare Gaza alle comunità coloniche che la abitavano in due, tre diversi punti dell’exclave palestinese, a molti parve un segnale di disponibilità al dialogo, al riavvicinamento tra le parti. Nulla di più illusorio. L’obiettivo era fare di quella porzione di terra una grande cella in cui tenere rinchiusi gli abitanti e il regime che si erano scelti con legittime votazioni.
L’obiettivo di Sharon era isolare la Striscia: da Israele e dal mondo. Dalla comunità internazionale. Da chiunque potesse e, quindi, anche volesse portare aiuto alla causa palestinese. Allora si poteva ancora parlare di Hamas in questi termini: una delle due facce di una stessa medaglia. Da un lato l’Autorità Nazionale che governava i residualissimi territori occupati della Cisgiordania; dall’altro lato l’organizzazione islamista che aveva preso il controllo di Gaza.
Oggi, dopo la radicalizzazione dello scontro, dentro una cornice peraltro di mantenimento delle posizioni storiche dei combattenti della fratellanza mussulmana nei confronti di Israele, quindi la volontà di cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della Terra, riesce davvero impensabile poter accostare l’ANP ad Hamas o i soldati dell’autorità di Abu Mazen ai massacratori delle bande criminali che hanno devastato i kibbutz e rapito centinaia di persone, tra cui donne e persino neonati.
Ma l’altro salto di squalificazione, quello che il nuovo governo di unità nazionale, nonché gabinetto di guerra, messo in piedi dall’accordo tra Netanyahu e Gantz (che è un ex militare e che, quindi, fa la sua parte in quanto tale nell’esecutivo emergenziale messo in piedi in queste drammaticissime ore), si appresta a compiere riguarda l’equiparazione voluta tra diritto alla difesa da parte di Israele e lotta ad una nuova forma di terrorismo in chiave, se non globale, almeno regionale.
Gli avvertimenti a Siria, Hezbollah libanesi ed Iran sono arrivati con gli attacchi dell’aviazione di Tel Aviv ad Aleppo e Damasco. Sono stati colpiti dei centri di addestramento e di stoccaggio di armi dei combattenti del “partito di Dio“, senza per ora attivare una reazione energica da parte degli stessi. Molto più prudente è la posizione di Biden, ma non per questo meno altezzosa nel definirsi come la risposta dell’intero Occidente al pericolo che viene dal Medio Oriente nel suo complesso.
Washington sa benissimo che un coinvolgimento di Teheran in questa nuova guerra significherebbe allargare a dismisura il campo della battaglia globale che, del resto, già interessa il cuore dell’Europa, grandi settori del puzzle africano tra guerre civili e colpi di Stato neo-anticoloniali, con le partite di Taiwan e Corea del Nord tutt’altro che risolte.
Una deflagrazione regionalista della questione israelo-palestinese è, ogni ora che passa, sempre meno riconducibile ad un’idea anche solo lontanamente di conflitto locale: le dimensioni dello scontro sono quelle che ha dettato Hamas. Una guerra che va oltre le rivendicazioni nazionali del popolo palestinese. Una guerra che si trasforma in una jihad e che lo fa fin dalle prime rivendicazioni dei dirigenti gazawiti sulle tante incursioni provocatorie israeliane sulla Spianata delle Moschee.
Altri paesi di strategica importanza internazionale, soprattutto per la Casa Bianca, agiscono in queste ore da mediatori, mentre da anni e anni hanno agito come foraggiatori di Hamas: il Qatar, tra tutti, è quello che spicca in quanto a rapporti strettissimi con il movimento di Ismāʿīl Haniyeh. La doppia morale occidentale esige, nell’ipocrisia più totale, che si condanni giustamente e responsabilmente il gruppo terroristico che regge Gaza dal 2007 e che, al tempo stesso, si tengano i mondiali di calcio a Doha.
Oppure che ci si rifornisca di petrolio dall’emirato del Golfo persico mentre ne si condanna il regime teocratico assoluto dell’emiro Tamīm bin Ḥamad Āl Thānī. Non c’è morale che tenga negli affari internazionali, nella polarizzazione degli stessi, nella partita globale in cui si gioca sulla pelle dei popoli per il ristabilimento di un unipolarismo da post-guerra fredda.
Se Israele entrerà, come pare ormai imminente dall’ordine dato dall’esercito (e quindi dal governo) alla popolazione del nord della Striscia affinché sfolli al sud della stessa, nelle vie di Gaza, il massacro di civili sarà inevitabile. La densità abitativa della zona lo evidenzia con assoluta, tragica nettezza. Su due milioni e quattrocentomila palestinesi che vivono nel fazzoletto di terra circondato da Israele e dal mare, quasi novecentomila sono ragazzi al di sotto dei vent’anni.
Moltissime centinaia di migliaia sono bambini. Altrettanti sono persone anziane, malate, provate da questi venti e più anni di apartheid. Una parola che non viene consentito si pronunci perché rivela la politica di uno Stato che si prefigge la democrazia come comportamento istituzionale e sociale su cui fondare il proprio presente e futuro e che, nei fatti, ha colonizzato trucemente tutto quello che gli era possibile, senza rispettare le risoluzioni dell’ONU, senza nessuna pietà.
Rispondere con un orrore ad un orrore è giustizia? E’ soltanto una vendetta di Stato, di uno Stato antietico, di uno Stato che non è meno fanatico, sul piano religioso, di quanto lo siano le organizzazioni terroristiche che condanna e che chiede a tutti di condannare.
Sarebbe più facile provare solidarietà anche per lo Stato di Israele, oltre che per gli israeliani che vi vivono, se la Storia dei rapporti con la Palestina non fosse quella degli ultimi settantacinque anni.
Se Israele stesso non si fosse fatto largo a scapito totale del popolo palestinese per imporsi come unica entità statuale dell’area, come prepotenza più che come potenza. Una protervia che lascia il segno in giovani generazioni, quelle del dopo Rabin e del dopo Arafat, che potevano invece essere cresciute in un clima di collaborazione e di fondazione di una sorta di federazione tra lo Stato ebraico e quello arabo. Nel solco del mandato dell’ONU.
Invece, anche a causa della debolezza dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen, della incapacità di far nascere una nuova classe dirigente che potesse fronteggiare tanto le aggressioni colonialiste israeliane quanto l’ascesa terroristica di Hamas, i rapporti di forza sono precipitati a favore di quest’ultima fino alle conseguenze che tutti ormai purtroppo conosciamo.
Alla manifestazione del quotidiano “Il Foglio“, al cui appello ha aderito anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sono state lanciate parole di fuoco contro Hamas (più che comprensibili) e contro i palestinesi (totalmente inappropriate e ingiustificabili). Uno degli inciampi più rovinosi è confondere i terroristi palestinesi con i palestinesi. Se viene consentita questa narrazione, il proposito di Netanyahu di radere praticamente al suolo ciò che resta nella Striscia di Gaza, è più che una linea politico-militare.
E’ una nuova cultura dello sterminio.
Un popolo che ha avuto così tante sofferenze dal suo cammino nella Storia dell’umanità, un popolo che le sta avendo massicciamente dal 7 ottobre scorso nello Stato che si è creato dal 1948 nella terra che era dei palestinesi, quel popolo, ebraico ed israeliano al tempo stesso, non può dimenticare cosa vuol dire essere oppressi, cosa vuol dire essere ghettizzati, cosa significa essere privati di tutto. Dai beni materiali alla dignità come individui, come persone, come esseri umani.
Ciò che il governo di guerra di Netanyahu e Gantz sta per mettere in essere a Gaza è un crimine contro l’umanità uguale e contrario a quello che Hamas ha messo in pratica nel territorio israeliano, massacrando più di millecinquecento persone. Ad oggi, in una conta che aumenta di minuti in minuto, per via delle oltre seimila bombe che sono cadute sulla Striscia in queste ultime giornate in cui il cielo è grigio e tutto fumo, i morti palestinesi sono altrettanti. Ed i feriti anche.
Hamas chiama alla rivolta araba in tutto il mondo mussulmano. L’eco dei proclami jihadisti e la grande cultura islamica orientale e africana si confondono ancora. Come si confondono ebraismo e sionismo. Come si sono confusi a suo tempo cristianesimo, crociate ed evangelizzazioni forzate di interi popoli indigeni in America e in Asia.
Gaza sta per essere distrutta, il suo popolo annientato. E’ questo che gli israeliani vogliono? Solo vendetta? Vogliono fondare il futuro del loro Stato, della loro vita per altri cinquant’anni sull’odio e sulla paura costante, quotidiana? Vogliono continuare a vivere con i bunker accanto ad ogni abitazione invece di essere liberi di coesistere con i palestinesi e con gli arabo-israeliani?
Ci sono molti modi per farla finita con Hamas senza provocare un genocidio. Perché di questo si tratterà se Israele entrerà a Gaza dopo averla bombardata a tappeto. Forse la Storia è destinata a ripetersi. Ciclicamente, senza che si possa evitare tutto questo perché interessi enormi stanno dietro le parti in causa e sovrastano l’umano desiderio di pace, uguaglianza e libertà che tutti dicono, a parole, di volere universalmente.
Qui non c’è più la ripetizione tra tragedia e farsa. Qui è rimasta solo la prima. Per la seconda si attendono tempi ancora più bui.
MARCO SFERINI
13 ottobre 2023
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