Giacomo Brodolini e Gino Giugni sono nomi di politici e sindacalisti che nulla dicono alle giovani generazioni. Sono arrivato a lambire io la conoscenza dell’ultimo come ministro negli anni ’90 negli ultimi della prima fase della Repubblica Italiana: si era già in piena Tangentopoli e il governo Ciampi mise mano a riforme che, da un ex Presidente della Banca d’Italia, non ci si poteva attendere se non in chiave quanto meno liberale. Allora non si parlava affatto di “liberismo” anche se si intravvedevano i sintomi della globalizzazione dei mercati – soprattutto quelli legati alle nuove tecnologie – che avrebbero evidenziato meglio negli anni a venire la brutalità del neo-capitalismo d’avanguardia.
Nel 1969, dopo milioni di ore di sciopero, rivendicazioni studentesche e operaie, moti di piazza e rivoluzioni sognate dopo l’onda lunghissima del moto libertario sessantottino, proprio nel mese di dicembre i lavoratori metalmeccanici erano riusciti a prevalere e a costringere il padronato ad un accordo su diritti fondamentali per l’esercizio della democrazia nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro: l’ormai storico “autunno caldo” aveva dato i suoi frutti.
I lavoratori avevano unitariamente conquistato estensioni del diritto alla salute, al conteggio retributivo delle loro assemblee di fabbrica, nonché la contrattazione diretta nella fabbrica stessa. Conquiste collettive, frutto di una convergenza degli interessi di classe che i proletari di allora avvertivano come propri imprescindibili diritti per i quali avevano scioperato oltre 200 milioni di ore in un anno soltanto.
Una terminologia che, espressa oggi, pare marziana, provenire da altri mondi, non propria delle consuetudini precarie, instabili e di permanente incertezza che caratterizzano l’atomizzazione dei diritti dei giovani che prestano loro stessi ad un frazionamento dei diritti imposto dal logoramento proprio di tanti decenni di prevalenza della nuova stagione imprenditoriale contro quella sindacale, operaia, lavorativa in senso generale in quanto a categorie in lotta.
Eppure, pochi mesi dopo la firma dell’accordo dei metalmeccanici, mentre la tempesta della lotta di classe imperversava in Italia e in Europa, il governo di allora, formato da partiti di centrosinistra, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico Italiano al Partito Liberale e a quello Repubblicano, proposero di redigere un testo che, questo è l’architrave fondamentale, il fulcro su cui si regge l’ispirazione e su cui verte tutta la ratio della normativa, “introducesse la Costituzione nei luoghi di lavoro“.
Non basta, infatti, aver scritto la più bella Carta fondamentale per la direzione di una Repubblica democratica e poi lasciarla priva di leggi attuative nei differenti contesti sociali, politici, culturali del Paese intero. Brodolini ne fu, per così dire, l’ispiratore e Gino Giugni ne fu l’artefice.
Esattamente 50 anni fa tutto questo avveniva e nasceva la “Legge 20 maggio 1970″ì, numero 300“. Da lì in avanti, infatti, sarebbe stata abbreviata nella sua denominazione, soprattutto giornalistica, come “Legge 300“, ma tutti sapevano – per l’appunto – che ci si riferiva allo “Statuto dei Lavoratori“.
Il Parlamento la approvò con interventi di deputati democristiani che, a leggerli oggi, pare di sentire parlare dei comunisti: si criticava un certo modo “obsoleto” di fare impresa e si affermava che tutti i diritti di cittadinanza presenti nella Costituzione dovevano riguardare indistintamente le lavoratrici e i lavoratori e che, pertanto, fino ad allora e con un colpevole ritardo si era trascurato il collegamento tra il mondo del lavoro e i princìpi della Carta del 1948.
Indubbiamente la furia della lotta di classe del biennio ’68-’69 aveva convinto anche i più recalcitranti tra i conservatori e liberali del Paese a mettere mano ad una regolamentazione dei diritti sociali per generare una pacificazione tra le classi stesse. Salvaguardando ovviamente il privilegio dei padroni nel mantenere il loro ruolo a pieno titolo, si concedevano una serie di diritti che prima erano stati del tutto ignorati secondo la vecchia maniera fordista: una concezione della fabbrica con una dirigenza gerarchica in stile quasi prussiano, senza quella flessibilità che sarebbe di lì a poco stata la filosofia del toyotismo.
Fordismo estremista e intransigente da un lato, apertura alle concessioni e fine della burocratizzazione del lavoro e delle gerarchie militari dall’altro, furono due visioni dell’organizzazione capitalistica che si vennero a scontrare fino a che non prevalse, per effetto della diffusione globale delle merci e della conquista di nuovi vasti settori di esportazione, una produzione necessariamente velocizzata con la crescente introduzione della robotica e con l’utilizzo di una forza lavoro rassicurata dalle concessioni che le erano state fatte in forma di diritti acquisiti legalmente e dunque incontestabili e rivendicabili ad ogni tentazione neofordista del padrone di turno.
Tuttavia in Parlamento, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (cui si unirono i fascisti del MSI per altri motivi) si astennero sull’approvazione della “Legge 300” poiché si trattava senza ombra di dubbio di uno spartiacque nella conquista di una agibilità democratica nei luoghi di lavoro mai vista prima; ma rimanevano delle zone d’ombra, come ad esempio la non estensione del reintegro del lavoratore nel suo posto di lavoro, dopo licenziamento senza giusta causa, nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti.
Un tema che ha vagato negli anfratti nauseabondi di una politica liberista che si è protratta in tutti i governi della seconda fase della vita repubblicana in Italia: l’abolizione del famoso (e per molti famigerato) “articolo 18” dello Statuto dei Lavoratori è stato l’intendimento tanto delle destre più liberali e liberiste quanto di forze di un nuovo centrosinistra, quello renziano per intenderci, che alla fine con il “Jobs act” ha messo la parola fine anche a quel sacrosanto diritto.
In realtà, dopo 50 anni, noi possiamo solo celebrare una Legge che, nei fatti, dopo tante controriforme e stravolgimenti non esiste più. Possiamo ricordarla come si fa con un caro estinto, ma non possiamo festeggiarla come conquista che è rimasta, ma solo parlarne come normativa che secondo alcuni giuslavoristi avrebbe fatto il suo tempo proprio perché nata come contraltare al fordismo. Siccome l’epopea del fordismo è stata surclassata ormai abbondantemente dal taylorismo prima e dal neoliberismo poi, tutte le ragioni che portarono alla nascita dello Statuto dei Lavoratori oggi sarebbero vacue, prive di senso, di significato sociale.
Un facile sillogismo, adatto proprio a chi ha l’interesse primario a garantirsi nuovi ingenti profitti in un mercato del lavoro da mortificare ulteriormente, soprattutto ora in tempi di pandemia, mentre si aprono varchi per concorrenze spietate in settori di produzione riconvertita per l’emergenza sanitaria. Semmai si è potuta pensare una “morale” per il capitalismo, ci ritroviamo in una contingenza di fattori che descrivono un mondo del lavoro così frammentato e deregolamentato, completamente asservito alla variabilità dei flussi finanziari dei grandi gruppi mondiali, tale da andare oltre qualunque ipotesi di scrupolo morale per le proprie maestranze, per tutti quei lavoratori che sono assunti senza la minima possibilità di immaginare nemmeno lontanamente una nuova democrazia nelle fabbriche e negli invisibili luoghi di lavoro in cui si trovano ad operare.
Dove potranno mai i riders fare una assemblea lavorativa? In mezzo ad una piazza con tutte le loro biciclette, scooter e moto? Dove potranno mai riunirsi per contrattare con il datore di lavoro i giovani che servono piadine e pizze al trancio in grandi catene alimentari, divisi dal metodo organizzativo di mansioni che sono frutto di contratti precari, rinnovati mensilmente, privi di qualunque diritto fondamentale, di quelli previsti dalla “Legge 300“?
No, tanto la fine del regime fordista nell’ordine produttivo capitalistico mondiale (quanto meno occidentale) ieri, quanto le nuove trasformazioni iperliberiste del sistema dello sfruttamento del lavoro oggi non possono essere l’alibi per dichiarare “diritti naturali” ormai acquisiti quelli dei giovani e anche meno giovani lavoratori. Semplicemente per un motivo lapalissiano: non esistono. In qualunque ambito e settore produttivo si vada a cercare un briciolo di residuo dei diritti previsti dallo Statuto di Brodolini e Giugni, non se ne troverà traccia.
E’ stato facile per Renzi (ma non solo per lui) e per le forze politiche della finta sinistra, di opposizione prima e di governo poi, capovolgere l’agibilità democratica dei nuovi lavoratori in spazio di azione per le imprese.
Dopo anni e anni di destrutturazione della rabbia operaia, privata di un sogno rivoluzionario, di una evoluzione sociale, di una trasformazione della vita a misura d’essere umano e non di imprenditore; dopo la sconfitta subita dalle grandi tensioni libertarie, bene o male incarnate nell'”assalto al cielo” novecentesco; dopo l’adeguamento pedissequo della politica politicienne al nuovo ordine italiano e mondiale del capitale, la pace sociale è divenuta, grazie al “pensiero unico“, la nuova vera frontiera ideologica incontrastata.
Non esiste oggi tanto quel sentimento di adeguamento delle prepotenze dell’impresa ai diritti costituzionalmente sanciti: dall’articolo 1 sulla fondazione della Repubblica sui valori del lavoro fino all’intero testo che ne è espressione e che subordina l’interesse privato alle priorità di natura pubblica. Non esiste neppure da parte del sindacato una politica di ricomposizione classista, di recupero dell’odio di classe, di formulazione delle rivendicazioni sociali sulla base di una netta contrapposizione rispetto al padronato che ha rialzato tronfiamente la testa d’aquila imponendo la sua linea al governo durante la prima fase della pandemia.
Eppure dell'”autunno caldo” del 1969 e della formazione della “Legge 300” restano non proprio dei ruderi da contemplare con rimembranze nostalgiche. Comprendere appieno quei fenomeni sociali e politici può essere oggi una importante leva per scardinare il torpore in cui sedimenta la coscienza di classe che non priva di sostanza ma soltanto di forma.
Ha bisogno di una contestualizzazione moderna, di nuove parole, di una nuova ispirazione ideologica che riprenda non vecchie categorie di analisi dell’economia di mercato, ma innovi la tradizione del movimento dei lavoratori e degli studenti, visto che se guardiamo alle grandissime multinazionali che distribuiscono ogni sorta di merce il fordismo è stato ampiamente superato e migliorato nel controllo produttivo in salsa prussiana.
E se, pure, guardiamo alla flessibilità tayotista che lo sostituì, anche questo modello è ormai ampiamente surclassato da una flessibilità che va oltre l’immaginazione più feconda.
C’è tutto un grande mondo del lavoro e del non-lavoro, della precarietà e del moderno schiavismo, di un caporalato che emerge dal sommerso soltanto per convenienza momentanea, “altrimenti i prezzi delle fragole aumentano” (ipse dixit, la Ministra dell’Agricoltura), che deve poter riconquistare un nuovo Statuto dei Lavoratori. A cui vanno aggiunti anche coloro che il lavoro proprio non lo hanno e tutti quelli che, pur avendolo, lo vivono nell’intermittenza contrattuale della più becera precarietà.
I diritti conquistati 50 anni fa si sono praticamente quasi tutti dissolti. E’ tempo di riprenderseli e trovarne dei nuovi, perché gli imprenditori giocano sempre al rialzo e, in fondo, loro hanno ben poco da perdere. Almeno fino a che un virus o una rivoluzione sociale non gli metteranno innanzi la verità: che non hanno alcun diritto di essere proprietari del lavoro altrui, delle ricchezze prodotte dall’intera società.
MARCO SFERINI
20 maggio 2020
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