Il diritto viene prima della libertà o viceversa? Oppure entrambi sono coevi e si concretizzano nello stesso istante in una uniformità che riguarda tanto l’individuo, il cittadino, l’essere umano quanto la collettività nella sua interezza?
Sono domande legittime, soprattutto in tempi di governo meloniano, allorquando una destra incattivita da ottant’anni di costituzionalismo democratico e repubblicano tenta la sua personale revanche decostruendo gli architravi della socializzazione e del civi(li)smo che sono andati consolidandosi dal 1946 ad oggi.
Dunque, rifacciamoci la domanda, ma coniugandola col problema per cui le attiviste di “Non una di meno” e di “Extinction rebellion” si sono organizzate in una resistenza passiva e nonviolenta nei confronti della ministra Eugenia Roccella, addetta alla protezione della famiglia, della natalità e delle pari opportunità: il diritto all’aborto viene prima della libertà di abortire?
Oppure il diritto all’interruzione della gravidanza fa parte della libertà stessa della donna su sé stessa, sul proprio corpo, sulla propria psiche, sul proprio modo di essere e vivere di coseguenza?
Quarantacinque anni fa, quando la Legge 194 venne varata dal Parlamento italiano il 22 maggio del 1978, il dibattito aveva lacerato il Paese, diviso una comunità nazionale per fede e per tradizione cristiana e cattolica, ma pure venuta fuori da una dittatura fascista e da una guerra mondiale che avevano fatto scoprire, con il portato laico di una larga parte della Resistenza, che intendeva le nuove istituzioni repubblicane proprio in questo senso, un nuovo modo di concepire la vita e l’esistenza: prima la piena libertà di espressione e poi la tradizione.
Il retaggio culturale ed ideologico del cattolicesimo non conoscerà una soluzione di continuità e, anzi, con la rinascita del Partito popolare italiano nella nuova forma organizzativa della Democrazia cristiana sarà uno dei due grandi filoni socio-politico-antropologici dell’Italia moderna.
Ma il dibattito sul diritto all’interruzione di gravidanza, fin dagli anni ’70 venne inteso come una nuova tappa di emancipazione femminile, oltre che come conquista civile per le donne.
Salute mentale e fisica venivano messe finalmente sullo stesso piano e si lottava per riconoscere una uguaglianza di diritti che, nel caso delle donne, meritava una attenzione maggiore e particolare visto che gli uomini non partoriscono e, quindi, la decisione ultima sui nascituri doveva e non poteva non toccare a chi portava in grembo le creature frutto di un amore o, molte volte, di soprusi e di violenze dalle tinte patriarcali, maschiliste figlie di secoli di oscurantismo e di dominio dell’uomo sulla donna.
A distanza di quasi mezzo secolo, dunque, dopo l’affermazione della libertà della donna di avere il diritto all’aborto, ci tocca interrogarci sulle priorità e sulle parole di una ministra che, a precisa domanda della conduttrice televisiva Bortone, se l’aborto sia appunto una delle libertà di cui le donne possono godere, risponde icasticamente: «Purtroppo».
Ecco dove viene ad inserirsi il tema del più o meno equipollente rapporto tra diritti e libertà e, soprattutto cosa discenda da cosa, chi possa godere di un diritto per avere completa libertà di azione su sé stesso, mediante la propria volontà consapevole ed esplicita. Siccome viviamo in una società democratica ispirata dal diritto, ne consegue che la libertà, per quanto la si possa rivendicare, non può vivere di sé stessa se non è supportata da un riconoscimento legale.
Noi possiamo dichiararci liberi di fare qualunque cosa, ma se il diritto non è dalla nostra parte (si badi bene: il diritto positivo inteso come “Ius” e non come la facoltà o la pretesa di poter agire in un determinato modo prescindendo da qualunque regola comunemente condivisa), quella libertà rimane sempre e soltanto un desiderio singolare, una aspirazione ristretta e contenuta in noi e non viene ad essere un elemento sociale, civile, morale e culturale di un intera nazione, di un complesso sistema-paese.
La conquista del diritto all’aborto è tale perché è un diritto in più, dal 1978.
E, in quanto tale, è parte di una nuova ispirazione di massa, di una nuova normativa che fuoriesce dai cardini ristretti della Legge e diviene patrimonio condiviso, riconoscimento della comunità in sé stessa attraverso l’estensione non di privilegi ma di veri e propri diritti comuni per tutte e per tutti. In questo caso per tutte le donne, senza alcuna distinzione.
Quando la ministra Roccella si rammarica che l’aborto sia una forma di libertà che discende dal diritto italiano, da un aggiornamento culturale e sociale della nazione in senso laico e repubblicano, riporta automaticamente l’orologio della modernità indietro di tutti quei decenni che sono serviti per mostrare anche alla parte detrattrice della società che un diritto non è una imposizione, non è una discriminazione nei confronti di altri pensamenti, di culture, di religioni, di fedi di qualunque tipo.
E, soprattutto, la ministra Roccella si discosta, nonostante il suo passato di radicale, da un cammino innovativo che mette al centro non una sola cultura ma il pluralismo che è l’esatto opposto dello Stato etico, che è scelta e non obbligo, che è confronto e non dettame giuridico o politico.
Quando i settori più reazionari della società temono una innovazione, un cambiamento, adoperano sempre lo spauracchio di una totalizzazione delle eventualità e ne fanno il principale asse di controdibattito ottuso e dogmatico che non dovrebbe lasciare adito a repliche.
Al tempo dell’introduzione della Legge 194 si propagandavano immaginari stermini di innocenti, in spregio a qualunque principio umano, a qualunque empatia tra madre e figlio, arrivando a dichiarare la fine della famiglia, al pari delle scempiaggini sui comunisti che mangiavano i bambini di trent’anni prima.
La propaganda deve fare il suo corso, ma il buon senso dovrebbe contrastarne gli effetti più devastanti, riportando la capacità critica di ciascuno di noi ad un discernimento equilibrato, pacato, sapendo distinguere tra esagerazione e realtà dei fatti.
E sono proprio i fatti a smentire i costrutti mentali, ideologici e politici di un governo in cui la ministra Roccella fa la sua parte di interprete delle retrività più conservatrici e reazionarie in materia di diritti delle donne, di conquiste sociali, civili e di moralità in senso molto laico del termine.
La contestazione delle attiviste di “Non una di meno” e di “Extinction rebellion” possono certo dare adito alle destre di montare una campagna di indignazione per la presunta antidemocraticità dell’intervento pacifico e tutt’altro che violento; ma il tema fondamentale rimane sul tappeto della discussione e del dibattito di oggi: la Repubblica italiana non può essere rivista attraverso le lenti deformanti di una sola cultura. Quella cattolica.
Lo Stato deve rimanere, anzi deve tornare sempre più ad essere laico e distaccato da ogni forma di influenza religiosa che pretenda, attraverso i governi che si succedono e che possono averla in simpatia, una indiscussa prevalenza di un’etica sulle altre, di una cultura su tutte le altre.
La maggioranza cristiana e cattolica dell’Italia moderna, per quanto ridimensionata possa essere, ha diritto di essere tale ma non ha nessun diritto di imporsi in quanto tale.
Perché la Repubblica è fatta di cittadine e cittadini e non di fedeli della Chiesa cattolica apostolica romana. Prima di essere religiosi, agnostici o atei, di essere di sinistra, di destra o di centro, hegeliani o kantiani (per citare due delle tante categorie filosofiche che si possono prendere a prestito), siamo cittadine e cittidini. E prima ancora di essere questo, siamo esseri umani, animali umani, persone che rispondono a sé stesse e alla società di sentimenti, umori, tensioni, gioie, dolori.
E abbiamo diritto di vivere questo rapporto ambivalente, di continuo scambio tra l’unicità particolare di ognuno di noi e il resto della società che ci circonda, nel modo più libero possibile, supportati da un diritto positivo che espanda questa necessità naturale e che, quindi, tuteli tutte le differenze e le particolarità che emergono di volta in volta.
Ritenere che soltanto la cultura religiosa e, nello specifico, quella cattolica sia il fondamento dell’etica comune e l’ispirazione di una sorta di nuovo costituzionalismo, superando il laicismo e approdando ad una sorta di conformità a quell’invocazione fantasiosa delle radici “giudaico-cristiane” dell’Europa, è molto di più di un passo indietro nella presupponente valorialità occidentale, nella sua superiorità democratica rispetto al resto del mondo.
Le destre, per connaturazione inculturale, per deficit conoscitivo, per impostazione dogmatica fondata sul trittico “dio-patria-famiglia“, sono europeiste sul terreno economico e finanziario, atlantiste su quello internazionale e bellico, obbedienti ad un clericalismo che a stento persino il papa riconosce come substrato teologico-ideologico della Chiesa del nuovo millennio.
Non si può apertamente parlare di una saldatura tra Vaticano e Palazzo Chigi in questo momento. Almeno per quanto concerne le posizioni sulla guerra in Ucraina e sugli altri conflitti sparsi per il pianeta.
Ma, indubbiamente, molto maggiori sono le convergenze sull’aborto, sul fine-vita, sui temi prettamente etici che riguardano il rapporto che tra immanente e trascendente, tra Stato e Chiesa, tra laicità e tolleranza religiosa, tra costituzionalismo e progetto eversivo delle destre in chiave presidenzialista e autonomista.
Le contestazioni, dunque, non solo sono legittime e devono continuare ad esserlo, ma di più ancora sono necessarie perché rischia di calare un pesante velo oscurantista su una serie di conquiste civili e sociali che si legano naturalmente e che non sono capricci del passato, ma stretta attualità del presente: per poter vivere laicamente, democraticamente, nella pienezza dei diritti che sono la quinta essenza della libertà. E viceversa.
MARCO SFERINI
21 maggio 2023
foto tratta dalla pagina Facebook nazionale di “Non una di meno”