Quel giorno di quarant’anni fa molti si aspettavano un radicale cambiamento nel quadro politico italiano: ma non si avverò il temuto (o sperato) sorpasso del PCI sulla DC, anche se i comunisti realizzarono un grande balzo e i democristiani ressero l’urto grazie al sacrificio degli alleati di centro.
Anche la legislatura avviata dalle elezioni del 1972 non era riuscita a giungere a compimento e per la seconda volta l’elettorato fu chiamato alle urne in precedenza alla scadenza naturale dei cinque anni.
Le elezioni del 20 giugno 1976 furono precedute da due consultazioni che in un certo senso ne prefigurarono il risultato: il referendum sul divorzio del 1974 e le elezioni regionali del 1975.
La consultazione referendaria del 1974 rappresentò la grande rottura con la tradizione, la scoperta che la società italiana era molto più laica di quanto non si credesse e che si stava emancipando dalla Chiesa e di conseguenza dalla Democrazia Cristiana.
Le elezioni regionali del 1975, nelle quali per la prima volta – è bene ricordarlo – votarono i diciottenni, mostrarono che il grande sommovimento del Sessantotto studentesco e dell’autunno caldo operaio era, infine giunto alla soglia delle istituzioni e visti i fallimenti delle proposte alternative aveva preso la via tradizionale del PCI.
La misura di quel cambiamento elettorale e soprattutto la sua qualità politica fu segnata, contemporaneamente, da un’avanzata del PCI (più 5,5% rispetto alle precedenti regionali) e dalla sconfitta della DC ( meno 2,6%) introdussero nel lessico politico una metafora fino ad allora inimmaginabile: quella del sorpasso del PCI sulla DC guardando appunto all’esito del 1975, con la DC al 35,3% e il PCI al 33,5%.
Di fronte a questa situazione la Dc reagì con una certa prontezza: riconoscendo l’esistenza di uno spostamento a sinistra del baricentro dell’elettorato che rischiava di spiazzare un partito ancorato alle tradizionali posizioni centriste, la linea che risultò vincente, ispirata da Aldo Moro in contrapposizione con la linea conservatrice che faceva capo ad Amintore Fanfani, impose il recupero della vocazione di “partito popolare” attento a tutte le istanze sociali e in particolare di quelle dei lavoratori, portando alla segreteria, nel congresso del marzo del 1976, il volto nuovo dell’“onesto” Zaccagnini.
Il PCI affrontò le elezioni in una situazione che presentava molti elementi di novità rispetto alle elezioni precedenti: a) la dura sconfitta subita nel 1972 dalle formazioni della “nuova sinistra” ne aveva fatto l’unico referente credibile dell’opposizione di sinistra; b) la formulazione della strategia del “compromesso storico” presentata organicamente da Enrico Berlinguer, diventato segretario del Partito nel 1972, in tre articoli apparsi su “Rinascita” nel 1973, aveva dotato il partito di una precisa proposta politica; c) i già ricordati eventi elettorali del referendum sul divorzio del 1974 e delle elezioni regionali del 1975 avevano mostrato sia la debolezza dello schieramento che facevo capo alla DC, sia le potenzialità espansive del voto comunista; d) l’estensione del suffragio ai diciottenni aveva improvvisamente allargato il mercato elettorale a nuove fasce della popolazione prive delle preclusioni anticomuniste della generazione precedente.
L’esito elettorale premiò, in ultima analisi, la strategia democristiana.
Il temuto sorpasso non si verificò, anche se si giunse a un bipartitismo quasi perfetto.
Ma il successo dei due principali partiti avvenne a spese dei potenziali alleati: la tenuta della DC sottrasse voti ai partiti “laici” di centro rendendo impossibile una ripresa di tipo “centrista”, mentre l’avanzata del PCI e il suo posizionamento a interlocutore diretto della DC tolse spazio elettorale e politico al PSI, allontanando l’eventualità “alternativa”.
I quattro anni che separarono le elezioni del 1972 da quelle del 1976 furono cruciali anche per le vicende elettorali della “nuova sinistra”, e videro – contemporaneamente – spegnersi l’illusione della nascita di un forte soggetto unitario a sinistra del PCI e nello stesso tempo prender forma la nuova (almeno per le giovani generazioni) presenza radicale, destinata a segnare, per l’originalità dei messaggi e dello stile, le vicende politiche di quest’area nata sulla spinta dei movimenti generati dal’68.
Sul versante della destra, il periodo che intercorse tra le elezioni del 1972 e quelle del 1976 segnò il fallimento del disegno di Giorgio Almirante di fare del MSI il nuovo grande partito della destra italiana, e nello stesso tempo portò in evidenza le contraddizioni presenti in quel progetto, che aspirava a fondare le velleità dell’anima eversiva con le aspirazioni di quella conservatrice moderata.
Il quadro generale verificò la comparsa di due elementi che ne spostarono le coordinate di fondo: una fortissima crisi economica a livello internazionale resa ancora più acuta dallo shock petrolifero dell’autunno – inverno 1973 – 74 e l’ascesa, sul piano interno, del fenomeno terroristico, sia sotto la forma delle stragi attuate “da destra” , sia dei gesti esemplari (rapimenti, uccisioni) portati avanti attraverso la strategia delle Brigate Rosse.
Tornando all’esito elettorale: la partecipazione al voto si mantenne su livelli assai elevati, con una leggera crescita rispetto alle elezioni precedenti, per cui si toccò il massimo storico dopo gli anni’50, pur perdurando la differenza di partecipazione tra il Centro – Nord e il Sud: complessivamente comunque si recarono alle urne il 93,4% degli aventi diritto.
La Democrazia Cristiana ottenne la stessa identica percentuale dell’elezione precedente, recuperando però la vistosa flessione accusata alle Regionali del 1975: la distribuzione del voto democristiano restò quella nota, con i massimi livelli (oltre il 50%) nel Veneto, a Brescia e Bergamo e nel Molise, e i “minimi” nella “regioni rosse”.
Le elezioni del 1976 furono per il PCI quelle del grande balzo in avanti: il partito avanzò del 7,2%, una percentuale enorme per la tradizione elettorale italiana al riguardo delle quali si erano sempre fatti registrare spostamenti di voto infinitesimali. L’avanzata del PCI si realizzò un po’ dovunque nel Paese, ma in particolare a Napoli, in Sardegna, a Torino e a Roma, mentre nelle tradizionali “regioni rosse” sfiorava ormai il 50%.
Democrazia Proletaria raccolse le principali formazioni della “nuova sinistra ( Pdup, Ao, Mls, Lotta Continua) in un cartello elettorale che ottenne la percentuale dell’1,5%, consentendo così l’elezione di 6 deputati. Un voto abbastanza omogeneo sul territorio nazionale, con lieve prevalenza al Nord.
Il Partito Socialista ottenne lo stesso risultato delle elezioni del ’72, con una tendenziale diminuzione al Nord e una lieve crescita al Centro Sud.
Duramente sconfitti risultarono PSDI e PLI, rivelatosi veri e propri “serbatoi” per la Democrazia Cristiana: i socialdemocratici scesero dal 5,1% al 3,4%, con gravi perdite nel centro nord, e i liberali, con l’1,3% rischiarono addirittura di restare esclusi dal Parlamento, conseguendo il “quorum” di stretta misura a Torino. In controtendenza nell’area laica di centro soltanto il PRI cresciuto dello 0,2%, con un effetto più evidente al Nord.
IL MSI cedette anch’esso voti alla DC perdendo il 2,6% e concentrando la caduta al Sud, laddove aveva invece ottenuto i maggiori incrementi cinque anni prima.
Entrarono per la prima volta in Parlamento quattro deputati radicali: il PR ottenne il sospirato “quorum” a Roma con il minimo scarto di 400 voti.
Voti percentuali e seggi alla Camera dei Deputati per le liste che riuscirono a eleggere deputati.
Democrazia Cristiana 14,209,519 voti 38,71% 262 seggi
PCI 12,616.650 voti 34,37% 228 seggi
PSI 3,540. 309 voti 9,64% 57 seggi
MSI – DN 2,238.339 voti 6,10% 35 seggi
PSDI 1.239.492 voti 3,38% 15 seggi
PRI 1.135.546 voti 3,09% 14 seggi
DEMOCRAZIA PROLETARIA 557.025 voti 1,52% 6 seggi
PLI 480.122 voti 1,31% 5 seggi
PARTITO RADICALE 394.439 voti 1,07% 4 seggi
SVP 184.375 voti 0,50% 3 seggi
PCI- PSI- PdUP (Val d’Aosta) 20.234 voti 0,07 1 seggio
Si era così raggiunto l’apice della fase del “bipartitismo imperfetto” (secondo la felice definizione di Giorgio Galli): DC e PCI avevano assommato quasi 27.000 000 di voti pari al 73,08% in tempi in cui, come abbiamo già segnalato, la partecipazione al voto superava il 90%.
Da quell’esito elettorale, raggiunto l’apice, scaturì paradossalmente l’avvio del declino del sistema politico italiano imperniato sui grandi partiti di massa.
Principiò da quell’esito elettorale un percorso logorante e bizantino: l’uomo scelto dalla DC per un”governo di tipo nuovo” (come scrive Guido Crainz nel suo recente “Storia della Repubblica”) fu Giulio Andreotti, colui il quale esprimeva al meglio tutte le esigenze della DC, i suoi intrecci clientelari, le ramificazioni delle sue correnti.
Ne scaturì il “governo delle astensioni” secondo il disegno del PCI di non forzare la situazione e di non concedere nulla alla possibilità di aprire un processo che gli si rivolgesse “contro”.
I primi provvedimenti non si fecero attendere: le misure di riconversione industriale varate a fine del 1976 riproposero le consuete agevolazioni alle imprese senza controlli reali, i primi aumenti riguardarono benzina, gasolio, metano, fertilizzanti, tariffe telefoniche ed elettriche; fu congelata una parte della contingenza. Provvedimenti al riguardo del quali non appariva davvero chiaro il nesso con un progetto di sviluppo del paese.
Non ottennero neppure gli effetti sperati provvedimenti di riforma attuati in settori particolarmente importanti: l’equo canone, lo scioglimento di enti definiti inutili al fine di ottenere uno snellimento della macchina burocratica, il servizio sanitario nazionale, una legge speciale (285) per l’occupazione giovanile.
Risultò, in quel quadro, del tutto controproducente l’idea di lanciare una proposta di “austerità” mentre saliva il tasso di inflazione, si aprivano le porte ad una forte speculazione finanziaria, cresceva esponenzialmente l’evasione fiscale, si impoverivano oggettivamente settori sociali operai e di ceto medio al riguardo dei quali cresceva il dislivello di reddito e di “status” sociale.
Diventarono inevitabili allora le contestazioni operaie: nel dicembre del 1977 si svolse anche una manifestazione nazionale dei metalmeccanici che fece davvero epoca, ma poco dopo con la “svolta dell’Eur” CGIL – CISL – UIL, anziché accogliere le istanze della più forte (e unitaria) categoria operaia accentuarono la svolta moderata, aprendo la strada ad una vera e propria divaricazione con la propria base sociale.
Contemporaneamente la Commissione inquirente rinviò al giudizio delle camere gli ex – ministri Tanassi e Gui per il caso Lockheed: colossali tangenti per l’acquisto di aerei militari, con un contorno di generali e faccendieri che avrebbe portato anche alle dimissioni del Presidente della Repubblica Leone nel maggio del 1978.
Il successo ottenuto nella successiva elezione del Presidente della Repubblica, con l’ascesa al Quirinale di Sandro Pertini ebbe sicuramente un impatto mediatico molto forte, ma non servì a mutare il corso assunto dagli avvenimenti.
La posizione del PCI si fece così sempre più difficile ma una sua insistita richiesta di mutamento portò solo a lunghe trattative e a un criptico mutamento di formula: dal governo delle astensioni a quello della non sfiducia.
Proprio il 9 Marzo 1978, giorno in cui Andreotti portò il governo della non sfiducia (sempre monocolore DC) all’approvazione del Parlamento, la vicenda italiana raggiunse l’apice dal punto di vista dell’escalation terroristica che aveva comunque rappresentato il punto saliente di quella fase: si verificò, infatti, il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della sua scorta da parte delle Brigate Rosse.
Il paese iniziò a vivere allora in uno stato d’assedio permanente con movimenti massicci delle forze dell’ordine, assillanti controlli di polizia, la drammatizzazione del scena politica.
La Repubblica sembrava davvero scomparsa, esposta all’assalto terroristico e destinata a vivere un periodo da incubo.
Si aprì uno scontro di fondo tra partito della “fermezza” (imperniato sul PCI) e quello della “trattativa” (che vide assieme il PSI craxiano e settori della DC e della Chiesa): una divisione esiziale che, in forme diverse, sarebbe proseguita nel tempo evidenziando una vera e propria “faglia” nel sistema politico e in particolare a sinistra, come si sarebbe visto all’inizio degli anni’80 con la formazione di un governo pentapartito a guida socialista nettamente contrastato dal PCI dell’ultimo Berlinguer che abbandonata la strategia del “compromesso storico” aveva adottato la linea dell’alternativa democratica.
L’idea del rinnovamento che aveva accompagnato la prima metà degli anni ’70 svanì n quella fase e con essa la solidarietà nazionale: le elezioni del 1979, ancora anticipate, registrarono il calo del PCI e l’avvento – nel giro di qualche tempo – della formula del “pentapartito” foriera di una fase di vera e propria dissoluzione del quadro politico.
Era mutato irrimediabilmente, in una dimensione strutturale, l’insieme del sistema politico: dopo aver attraversato il movimento del ’77(portatore di una forte carica contestatrice posta sul piano del recupero dell’individualismo e della massa quale solo fattore possibile di una nuova qualità dell’istanza rivoluzionaria) le nuove generazioni senza che si ravvedesse una qualche capacità di mediazione da parte delle forze storiche del movimento operaio (l’esaurimento di una possibilità di rapporto tra la nuova contestazione e le forze storiche fu emblematizzata dall’assalto attuato dall’autonomia operaia al segretario della CGIL, Luciano Lama, nel 1977 all’Università di Roma), esaurita l’idea di una egemonia del conflitto e delle ideologie ed esaltata l’autonomia del “gesto esemplare”, isolata la classe operaia (come sarebbe poi si sarebbe dimostrato nella vicenda FIAT del 1980), fecero irruzione fenomeni di propensione sfrenata ai consumi, al lusso, al divertimento, alla “Milano da bere”.
Si aprirono le porte a una feroce reazione di destra, all’impossessarsi della scena dei “Chicago – boys” e della gestione feroce del ciclo capitalistico definita sbrigativamente “reaganian – tachterismo”, allo smantellamento della struttura produttiva, alla crescita delle diseguaglianze, alla drastica riduzione dello stato sociale,all’emergere di forti tensioni in direzione della riduzione dei margini di democrazia.
Una riduzione dei margini di esercizio di democrazia avvenuta in funzione di un autoritarismo leaderistico che nella situazione italiana si sarebbe sviluppato attraverso la modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, l’esaltazione della personalizzazione della politica, la creazione del “partito – azienda” fino alla deformazione del “partito – personale” e ai reiterati tentativi, ancora in atto e da respingere seccamente, di modifica della costituzione.
Un’altra storia rispetto a quella che si pensava si fosse aperta tra la fine dei ’60 e la prima metà degli anni ’70.
Il ciclo dei “trenta gloriosi” di cui scrive Piketty si era concluso e gli esiti del ribaltamento di scenario principiato dall’inizio degli anni’80 li stiamo ancora sopportando nell’insopportabile degenerazione che contraddistingue l’attualità ben oltre quel “caso italiano” che pure, in quel giorno del 20 Giugno 1976 aveva raggiunto l’apice senza che si comprendesse che proprio in quel momento iniziava una precipitosa discesa nell’abisso di una storia negativa.
L’assenza di una proposta politica alternativa, una visione miope delle contraddizioni sociali emergenti, la mancata risposta alle esigenze profonde della società complessa, l’emergere di opportunismi corporativi molto forti, il terreno di coltura oggettivamente lasciato ai fenomeni eversivi causarono un mix esplosivo tale da favorire l’avvio di una lunga fase di inarrestabile declino generale.
Il 20 giugno 1976, alfa e omega del sistema politico italiano.
FRANCO ASTENGO
redazionale
20 giugno 2016
foto tratta da Wikipedia