1969: quando gli operai hanno rovesciato il mondo

A proposito di analogie, certe similitudini e certi collegamenti tra presente e passato non sono il frutto soltanto di un raffronto intertemporale, ma posso anche essere il termine di...

A proposito di analogie, certe similitudini e certi collegamenti tra presente e passato non sono il frutto soltanto di un raffronto intertemporale, ma posso anche essere il termine di paragone per rimettere in circolo nella stretta attualità dell’oggi idee e pratiche di lotta che hanno preso forma e si sono sostanziate in momenti in cui l’organizzazione sociale ha preso corpo grazie all’emergere di una coscienza collettiva che ha dato vita ad un nuovo “senso comune“, ad una riscoperta della “classe per sé“.

Il 1968, da questo punto di osservazione e di critica, è stato l’anno della grande rivolta studentesca, della gioventù che trasformava la semplice acquisizione nozionistica del sapere indotto da scuole e atenei in una espansione empatica, in qualcosa che avrebbe sovvertito persino la morale borghese e regalato al mondo una vastità interpretativa del sociale oltre la ristrettezza del perbenismo ufficiale della classe dirigente imprenditoriale ed anche politica.

Se, quindi, l’anno che precede il 1969 è essenzialmente sintetizzabile in questa definizione, in un contesto in cui l’onda massiva è quella della fiumana di una pubescenza e di una maturità consapevoli del potenziale che determinano nell’unirsi, del provare a capovolgere le aspirazioni di un moderno capitalismo post-bellico.

Il seguito sarà un protagonismo assoluto della classe operaia, di quelle lavoratrici e di quei lavoratori fino ad allora individualizzati, resi atomizzati da una logica produttiva che separava il proletario dal proletario e che metteva il povero contro il povero.

Il 1969 è, infatti, il protagonista pari merito col 1968 di un biennio rivoluzionario, certamente caldo in ogni sua stagione: primavera o autunno che sia.

Paolo Ferrero, fin dal primo capitolo del suo libro “1969: quando gli operai hanno rovesciato il mondo” (DeriveApprodi, 2019), evidenzia la globalità del movimento operaio e del mondo del lavoro in senso più lato. Assistiamo ad una collettivizzazione delle lotte, ad un interpretazione non più parziale e soggettiva di quello che avviene in una singola unità produttiva, ma ad una sua declinazione plurale e interdipendente in un sistema capitalistico che sta per tramutarsi da liberale a liberista.

Nel 1968 gli studenti conquistano le loro rappresentanze interne alle scuole e agli atenei. Nel 1969 le lavoratrici e i lavoratori ottengono le rappresentanze di base, quelle interne alle fabbriche, quelle in cui gli eletti sono oltre 30.000 in pochi mesi e di cui quelli sindacalizzati sono ancora molto pochi.

Nasce una nuova classe operaia, consapevole del proprio sfruttamento moderno, di tutti i tentativi fatti dai padroni per condizionare la produzione piegando la forza-lavoro alle esclusive logiche del profitto e, quindi, di un massiccio impiego della manovalanza, lasciando ben poco spazio alla vita quotidiana di ognuno e, anzitutto, ai diritti fondamentali dei salariati.

E’ nel 1969 che gli operai più giovani fanno da punto di congiunzione tra le lotte studentesche e quelle sociali e divengono rappresentanti di un proletariato che nella fabbrica vede un po’ il centro di tutto.

Nei collettivi di lavoro, nelle rappresentanze sindacali unitarie si discute non solo delle problematiche che interessano il ciclo produttivo, dei diritti da conquistare (salute, sicurezza, meno orario e più salario, fine delle gabbie salariali, punto unico di contingenza uguale da nord a sud del Paese, istruzione, riposo, ferie, assemblee in fabbrica, ecc.) ma anche della vita fuori dal posto di lavoro.

Un gruppo di donne di Dalmine, mogli degli operai dell’acciaieria, un giorno si reca dal consiglio di fabbrica. Reclamano per i propri figli un uguale trattamento scolastico. Sono meridionali e vengono discriminati, considerati come cittadini di serie B. Non solo i loro mariti, ma tutto il consiglio degli operai le ascolte e decide che quella è una lotta da fare, perché i diritti non sono distinguibili, ma soltanto cumulabili se si vuole provare a cambiare la società del privato, del profitto, delle merci e dello sfruttamento.

E’ solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare di intersezionalità delle lotte in quel tempo. Nelle grandi fabbriche iniziano a farsi avanti giovani quadri sindacali scolarizzati, capaci di avere una parola in più del padrone e di mettere così a tacere anche il capo che prova a creare attriti tra i livelli, a mettere gli uni contro gli altri.

Fondamentale è il ruolo dei metalmeccanici in tutte queste lotte. Dalla Zoppas alla Marzotto, da Porto Marghera alla Pirelli, dalla Fiat di Mirafiori a tanti altri centri produttivi, appare a tutti evidente il ruolo pregresso del movimento studentesco nella formazione dei nuovi quadri operai e sindacali.

Lo sottolineerà, tempo dopo, anche Bruno Trentin e sarà un riconoscimento che toccherà sul piano storicistico, perché diverrà lapalissiana la connessione tra il fenomeno del ’68 e la sua prosecuzione operaista, proletaria e rivoluzionaria nell’autunno caldo del 1969. Provando a stabilire delle analogie in merito all’oggi, ci si può domandare quanto sia rimasto di quell’anno che intaccò le certezze della borghesia e dell’imprenditoria in generale sulla tenuta anche politica di un sistema a garanzia dei privilegi di classe.

Gli operai, in sostanza, scelgono di lottare senza compromessi e lo fanno divenendo un soggetto fondante una nuova fase sociale, civile e culturale per l’Italia intera. Tutte le conquiste di allora saranno messe nero su bianco nel maggio dell’anno successivo, quando verrà approvata dal Parlamento la Legge 20 maggio 1970 numero 300, meglio conosciuta come lo “Statuto dei lavoratori“.

Tutte quelle che riguarderanno ovviamente i rapporti tra lavoratrici, lavoratori e padronato, tra sindacato e controparte confindustriale.

Ma le lotte per i diritti civili, quelle per l’emancipazione femminile, comprese le conquiste del divorzio e dell’aborto, dal 1974 al 1981, possono dirsi figlie di questo biennio veramente rovesciante una parte di quella strutturazione e della consequenziale sovrastrutturalità che era rimasta praticamente intatta nel corso del Novecento, protetta anche dal collaborazionista regime fascista.

Se il 1968 e il 1969 possono essere descritti e trattati come un biennio inscindibile, perché – si domanda Paolo Ferrero – allora questi due anni vengono spesso, anzi quasi sempre, separati? Perché si tratta il ‘68 come l’anno quasi esclusivamente rivoluzionario e si sottace tutto il potenziale trasformante dei mesi successivi?

Da quanto abbiamo detto, pare evidente che il ciclo di lotte apertosi con il 1968 non finisce con l’affievolirsi della fiammata studentesca. E così pure le conquiste operaie arriveranno fino a noi oggi e ci vorranno quarant’anni e più perché il liberismo ispiri una politica di contestazione di questi diritti dati per acquisiti.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sarà criticato prima e parzialmente (e progressivamente) abolito dai governi Monti e Renzi nel quadriennio che va dal 2012 al 2015. L’attacco alle conquiste del mondo del lavoro corrisponde alla fase globale del liberismo mondiale, al suo ingresso su una scena in cui il capitale finanziario mostra tutti i sintomi della crisi che scoppierà nel 2008-2009 e che, inevitabilmente, si riverserà nemmeno a dirlo su miliardi di salariati in tutto il mondo. Italia compresa.

Scrive a proposito Paolo Ferrero:

«Il 1969 viene presentato come un episodio del passato, agito da soggetti che non ci sono più – gli operai – in una situazione che non c’è più perché quelle fabbriche non ci sono più. Mentre il ‘68 parla di una fase della vita – la gioventù – che si ripresenta per ogni generazione, il ‘69 parla di un’era geologica arcaica, che non ha nulla a che vedere con l’oggi e soprattutto con il domani».

In questa analisi delle motivazioni culturali e sociali del venire meno di un riconoscimento del biennio rivoluzionario a fronte delle narrazioni moderne sulla fine della Storia, sul capitalismo come fase ultima dello sviluppo (dis)umano, c’è oggettivamente un riscontro veritiero.

Quante volte abbiamo ascoltato nei dibattiti televisivi, sentito per strada discussioni in cui si faceva riferimento al lavoro come a qualcosa ormai privato dell’operaio storicamente inteso. Per qualche decennio è parso di potersi far raccontare la favola di una produzione possibile senza manovalanza, come se i lavoratori fossero altro dagli operai nelle fabbriche e nei cantieri.

C’è stata una scissione predeterminata e voluta sia nella differenziazione terminologica (operaio versus lavoratore), sia nel tentativo di far credere che la nuova fase tecnologica delle “intelligenze artificiali” potesse in qualche modo mettere la parola fine al tipo di catena produttiva cui eravamo abituati tanto facendo riferimento a metà e fine Ottocento, quanto ai decenni ultimi del Novecento.

Il prodotto di questa separazione tra movimento studentesco del 1968 e rivolta operaia nel 1969 ha come scopo il nascondimento del conflitto di classe, della stessa esistenza di una lotta fra sfruttati e sfruttatori.

Sono stati inventati nuovi termini e, oggi, parlare di “padroni” sembra inappropriato: meglio dire “imprenditori”, consono ad una accettazione passiva di un ruolo che altrimenti suonerebbe troppo sovrastante chi padrone non è, chi non ha la proprietà dei mezzi di produzione, chi si arricchisce grazie al lavoro altrui.

La sinistra moderata ha sposato convintamente questo compromesso linguistico, culturale, antisociale e interclassista.

Ha pensato di trascinare quel che di buono poteva ancora esservi nella socialdemocrazia in una compromissione costante con i disvalori del capitale, facendone una appendice di un liberalismo di centrosinistra in cui il progressimo è stato appannato dalla piena accettazione dei valori del mercato, della regolamentazione dell’esistenza sull’inalterabilità dei rapporti di classe.

Se si vuole ancora trarre una lezione coraggiosa e fattiva per l’oggi dal biennio in questione, si deve – come sostiene Paolo Ferrero – «tenere uniti ‘68 e ‘69, lotte studentesche e lotte operaie, evitare ogni divisione che è funzionale unicamente alla riproduzione dei rapporti sociali capitalistici».

Dall’autunno caldo dell’operaismo italiano, dalle grandi sollevazioni studentesche promanano le sostanziazioni dei diritti sociali, civili e umani che hanno reso concreta la lettera costituzionale, facendo dell’Italia uno dei paesi europei più democratici. Una democrazia che oggi è nuovamente sotto attacco. E non solo a partire dal governo Meloni, ma da quando si è pensato, da sinistra (e ovviamente da destra) di riportare la politica sotto l’egida esclusiva del punto di vista del capitale, del padronato, di quel liberismo che ne è l’ideologia consolidata e in continuo divenire.

Il risultato è un impoverimento generale e, soprattutto, dei ceti già più fragili, colpiti duramente dalle crisi globali ed europee del primo ventennio del nuovo secolo e del nuovo millennio.

La pandemia e la guerra hanno accresciuto questa instabilità e stanno ponendo le basi per un ritorno della coscienza critica attraverso la sommatoria di problematiche che oltrepassano il semplice (si fa per dire) ristretto ambito di fabbrica e di lavoro.

La crisi climatica è fra questi elementi deflagranti e sovraintende un po’ tutte le altre criticità che registriamo in una finta modernità e in un sempre meno distinguibile avvenire per quelle che non vengono chiamate le “future” bensì le “ultime” generazioni.

1969: QUANDO GLI OPERAI HANNO ROVESCIATO IL MONDO
PAOLO FERRERO
DERIVEAPPRODI, 2019
€ 14,00

MARCO SFERINI

9 agosto 2023

foto: particolare della copertina del libro, scatto di Tano D’Amico


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