Per rispettare il silenzio elettorale, oggi scriverò della Costituzione italiana e del suo molto simile predecessore cui, peraltro, la Carta del 1948 si è ampiamente ispirata nella redazione fatta dai Padri Costituenti.
Provate a rileggere una pagina di storia un poco dimenticata, molto obliata dai testi scolastici e ridotta ad episodio quasi marginale, quando invece fu uno, forse l’unico, momento di altissima partecipazione popolare ad una rivolta contro un potere millenario, temporale e spirituale in una unica espressione politica statale: il vecchio “Patrimonium Sancti Petri”, lo Stato della Chiesa.
Fu nel novembre del 1848 che Pellegrino Rossi, ministro pontificio nominato da Pio IX per provare ad arginare la rivoluzione che divampava in quasi tutta l’Italia, già sconfitta al Nord e ancora febbricitante al Centro e al Sud, dopo una politica ambivalente, che provava ad accontentare i liberali che volevano più riforme e la curia romana che voleva invece conservazione e tradizione in ogni campo ed ambito sociale, venne pugnalato a morte.
E così il tentennamento papale, volto a mantenere il potere provando ad esercitare una qualche esperienza di “pace sociale” gestita governativamente, venne messo da parte e si aprirono mesi di incertezza. Il pontefice fuggì travestito da prete e si rifugiò sotto le più confortanti protezioni del Borbone a Gaeta mentre a Roma divampava il dibattito: che fare dello Stato del Papa senza il Papa?
Si arrivò, dopo mille dibattiti, alla decisione di dare avvio ad una Assemblea Costituente Romana. E qui si dovette affrontare il tema della forma dello Stato: ancora monarchia o passaggio alla repubblica?
Vinse quest’ultima ipotesi, con non poche resistenze. Ma prevalse. E ne seguì la meravigliosa e tragica vicenda di uno stato democratico, laico, che garantiva al romano pontefice “tutte le guarentigie necessarie” per l’esercizio del suo potere. Solo spirituale, si intende. Quello temporale era stato dichiarato decaduto.
La Repubblica Romana, assediata dai francesi di Oudinot nella cintura della capitale, a sud dagli eserciti borbonici ricacciati indietro da Garibaldi, a nord da quelli austriaci penetrati nelle Legazioni bolognesi e ferraresi, dovette soccombere in una data più volte divenuta storica nel corso degli eventi umani: il 4 luglio 1849.
Il Triumvirato formato da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini non poté che dichiarare la caduta ma non la resa. La Repubblica avrebbe vissuto ovunque vi fosse stato ancora un afflato e una voglia di libertà legata all’aspirazione democratica vera unita ad uno spirito laico, indipendente per tutta una Italia divisa, oppressa da regimi monarchici.
Da quell’esperienza, proprio Mazzini volle che nascesse, proprio mentre i francesi entravano in Roma, un esempio di Costituzione per una futura Repubblica che comprendesse l’intero territorio italiano.
Non importava l’essere un testo non applicabile: in quel momento era il testamento dei valori su cui si sarebbe fondato quello Stato che era appena tornato nelle mani della reazione, di Luigi Napoleone di Francia, presidente di una repubblica che sarebbe presto divenuta impero e che, per arrivare a questo scopo, aveva bisogno dell’appoggio incondizionato della Chiesa cattolica.
Provate a leggerla la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 (qui nella versione originale a cura degli Uffici della Camera dei Deputati): provate a portare a fianco di quel testo quello elaborato e approvato dall’Assemblea Costituente del 1946-1947. Troverete molte congruenze, molte somiglianze, persino così evidenti da lasciarvi dubitare se all’epoca esistesse il “copia-incolla” dei nostri giorni.
Battute a parte, molto lavoro dei Costituenti del 1946-1947 fu improntato a riprendere valori e ispirazioni morali, sociali, civili che erano state elaborate da un gruppo di uomini liberi, di diversissima estrazione sociale (nobili, borghesi, popolani) così come triplicemente diversa era la composizione del Triumvirato: Mazzini ne era entrato come rappresentante del popolo, diciamo di un “terzo stato” aggiornato ai suoi tempi; Armellini come espressione di una borghesia romana che ondeggiava tra vecchia nobiltà devota al trono e all’altare e popolo proletario; Saffi, che era di Forlì, come rappresentante di ceto nobiliare.
Eppure questi tre uomini, così diversi tra loro, avevano saputo non solo gestire un impegno di governo onerosissimo, visti i tempi, visti gli attacchi militari, le aggressioni vere e proprie subìte dalla Repubblica, vissuta come una minaccia, come l’esempio di una nuova sovversione dei poteri coronati d’Europa (e prima ancora di tutta Italia), ma avevano indicato, senza ingerenza alcuna, con discorsi e scritti rivolti al popolo e a tutti gli uomini e le donne dello Stivale e del mondo, che era possibile separare lo Stato dalla Chiesa e che, soprattutto, era possibile creare le condizioni di un moderno modello di convivenza civile priva di corruzione, fondata sulla partecipazione popolare assoluta.
Il secondo paragrafo dell’articolo 20 del Titolo II “Dell’Assemblea”, recita testualmente: “Il popolo vi elegge i suoi rappresentanti con voto universale, diretto e pubblico.”.
Universale, diretto e pubblico. Suffragio universale come proposta politica di partecipazione di tutti i cittadini alla vita democratica della Repubblica: uomini e donne, senza distinzione alcuna di ceto, senza differenza sociale, senza alcuna discriminante.
Oggi, in questo scorcio di fine 2016, un diritto sancito nel 1849 e ribadito nel 1948 rischia di essere amputato ampiamente del suo significato originario.
Il voto di domani è un voto che può proteggere questi valori se respinge un tentativo di stravolgimento della Carta fondamentale della nostra Repubblica che, senza scrivere in alcun articolo dove il governo assume più poteri, ne crea abilmente il contesto favorevole: tutto porta ad un semplificazionismo che riduce il Parlamento a mero esecutore, anche tempisticamente, delle volontà dell’esecutivo.
Si sbilancia l’equilibrio tra i poteri e si fa credere ai cittadini che invece, approvando la riforma, si estenderebbero partecipazione, dialettica parlamentare e diritti delle minoranze e delle opposizioni.
E’ esattamente il contrario.
Combattiamo contro uno tsunami di menzogne, di banalità e di concetti vuoti messi lì per impressionare e per creare timori inesistenti: parlare di “progresso”, di “cambiamento” e di “protagonismo europeo” dell’Italia in caso di vittoria del “sì” è aria fritta. E friggere l’aria è facilissimo per chi sa che sarà respirata a pieni polmoni ed andrà a corrodere il senso critico che ognuno di noi può avere e far valere contro l’ipocrisia di un potere che vuole autoalimentarsi a scapito dei più deboli di questa società.
Domani, dunque, quando, mi auguro, andremo tutte e tutti ai seggi a votare, ricordiamoci del coraggio dei triumviri e dei volontari romani, dei costituenti di allora e di quelli del 1948: delle camicie rosse garibaldine che difesero quel grande tentativo di far esistere in Italia, per la prima volta nella sua storia bimillenaria, una Repubblica popolare, democratica e partecipativa. Come quella che abbiamo, nonostante tutto, ancora oggi e che dobbiamo difendere con le unghie e coi denti di ogni NO su cui metteremo la croce in cabina.
Lasciamo che il filo rosso della storia non si spezzi, che resista ancora la continuità tra il 1849, il 1948 e l’oggi. Con la prospettiva di aprire una stagione riformatrice vera che guardi ai bisogni dei più indigenti, alle categorie meno protette, a tutti coloro che non vivono di privilegi.
Pensateci oggi. Pensateci con la ferma volontà e la coscienza di sapere che ogni voto è un bene comune, un bene per la Repubblica, per la Costituzione, per la libertà regalataci dalla Resistenza antifascista e che non può essere archiviata in nome della stabilità dei profitti e dei mercati.
MARCO SFERINI
3 dicembre 2016
foto tratta da Wikimedia Commons