18 giugno, l’ora più buia della lotta dei lavoratori

«Due dicembre, giorno nero per la gente che è stanca e che scende nelle strade perchè vuole un po’ di pane. Due dicembre, giorno nero, da finire al cimitero,...

«Due dicembre, giorno nero
per la gente che è stanca
e che scende nelle strade
perchè vuole un po’ di pane.

Due dicembre, giorno nero,
da finire al cimitero,
da finirci, assassinati
da quei servi mal pagati.»

Avola, 2 dicembre 1968

Il 18 giugno, oggi, doveva essere una giornata di sciopero dei lavoratori della logistica. Doveva essere una giornata che avrebbe dato un senso di classe alle tante rivendicazioni sociali sparse in diversi settori produttivi che hanno sostenuto lo sforzo economico del Paese nel passare attraverso la pandemia senza veder mai mancare sugli scaffali dei negozi e dei supermercati nessuna merce, evitando che all’emergenza sanitaria se ne aggiungesse una che riguardasse direttamente gli approvvigionamenti per tutti. Indistintamente, così come vuole la globalizzazione.

E così come vuole la regola dello sfruttamento della forza-lavoro nel capitalismo: i lavoratori della logistica, facchini, portapacchi, smistatori di merci nelle grandissime catene commerciali mondiali, da un lato sono stati oggetto di un aumento esponenziale del livello di sfruttamento, dall’altro hanno assistito alla vertiginosa crescita dei profitti di aziende che – lo si può dire senza tema di smentita – sono praticamente le uniche a non aver conosciuto alcuna forma di crisi né a breve, né a medio, né tantomeno a lungo termine.

Lo sciopero proclamato unitariamente da SI.COBAS., Unione Sindacale di Base ed altre sigle sindacali non confenderali, aveva dunque l’obiettivo di unificare le lotte, di dare loro una continuità e una omogeneità che le avrebbe rese non soltanto più forti tanto in fabbrica quanto fuori della fabbrica stessa. Invece questa giornata si è trasformata in una grande tragedia. Nel farlo, però, ha sbattuto nuovamente in faccia a tutti gli italiani, consapevoli o meno del livello di sfruttamento di questi lavoratori, quale sia il punto di non ritorno dello scontro e quanto siano disposti i padroni a forzare la mano dei loro dipendenti per stroncare sul nascere qualunque organizzazione delle maestranze, qualunque rivendicazione di diritti fondamentali per poter almeno sopravvivere.

Il vecchio adagio è sempre di strettissima attualità: “La lotta tra i poveri la vincono i ricchi“. O se preferite: “La lotta tra i lavoratori la vincono i padroni“. Declinatelo pure come meglio credete, ma il concetto rimane la divisione nel mondo del lavoro e l’unità padronale, fortemente classista, che non può avere scrupoli, che istilla questa antietica capitalistica ben oltre i margini della difesa del profitto privato. Ne permea le categorie che lavorano per lei, per l’impresa.

La tragedia è la lotta che di classe diventa contro la propria stessa classe. Appunto, una lotta tra sfruttati, tra moderni proletari, tra lavoratori che vivono gli stessi disagi, che sono spinti a farsi la guerra nel nome della sopravvivenza, dell’oltrepassare la disperazione quotidiana fatta di ciò che dovrebbe essere la normalità, come mandare i figli a scuola, farli crescere con tutto ciò che gli occorre, dare loro quelle pari dignità che lo Stato dovrebbe anzitempo tutelare.

Invece la discriminazione è cio che i poveri, ancora oggi, conoscono e rimane un marchio quasi indelebile se le lotte dei lavoratori sono tra i lavoratori stessi. E’ il caso della morte, proprio questa mattina, di un giovane sindacalista di 37 anni. Era coordinatore del SI.COBAS. di Novara: stava facendo un picchetto con altri compagni di lavoro e di sindacato al deposito territotriale della catena di supermercati LIDL.

Nasce un diverbio tra chi picchetta e chi deve uscire con i camion che portano le merci ai punti vendita. L’autista decide di forzare il blocco, investe Adil Belakhdim, lo trascina per una ventina di metri e lo uccide. Poi fugge con l’automezzo e viene fermato in autostrada dai carabinieri. Una tragedia nella tragedia: due vite distrutte, due famiglie coinvolte, un sindacato messo a dura prova e una catena di supermercati che da tempo vede proteste in tutta Italia, blocchi e piccheti di lavoratori che si spostano da centro produttivo e di stoccaggio delle merci ad altro centro per generalizzare le lotte, per fare pressione sulle aziende che li pagano pochissimo e li sfruttano tantissimo.

Lavoratori come Adil a volte guadagnano 300/400 euro al mese e sono costretti a turni massacranti. La risposta padronale non è, come negli anni ’60 e ’70, chiamare la polizia e farsi proteggere dalle istituzioni. Oggi si risponde duramente di persona, si incita il proprio personale – se vuole continuare a lavorare – a mettersi frontalmente contro altri operai. Oppure si assiste a vere e proprie spedizioni punitive e repressive come quella di Tavazzano. Gli stessi sindacalisti del SI.COBAS. avevano temuto che ci potesse scappare il morto, ed alla fine purtroppo così è stato.

Alla fine o al principio di una radicalizzazione della lotta: uno scontro che si inasprisce non casaulmente, ma mediante una concezione del lavoro che prescinde da statuti, da leggi, da rapporti persino umani. La violenza non lascia spazio a nessuna trattativa: chi sta dall’altra parte del tavolo, dirigendo aziende e spartendo profitti, pensa solamente a come fermare le rivendicazioni salariali, di orario e qualunque altra variabile possa comportare una compressione degli introiti anche minima che comprometterebbe la tenuta sul mercato dell’azienda, le sue quotazioni di mercato e, pertanto, in ultimo l’espansione dei profitti.

I lavoratori oggi rischiano di morire, e muoiono ogni giorno anche mentre non lavorano, anche quando sono sindacalisti che organizzano un sacrosanto picchetto per ottenere di essere ascoltati dai padroni, perché anche la politica si disinteressa delle loro ragioni, proprio mente pensa al famoso Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Intorno alle proteste operaie è venuta a mancare tutta una rete sociale e civile di protezione che avrebbe forse impedito che questi lavoratori si sentissero così minacciati dalla controparte: li abbiamo lasciati soli con i loro sindacati di base, li abbiamo dimenticati e li viviamo come parte di un tutto che diamo per scontata. Ci sono, ci saranno sempre perché non possono non lavorare. O meglio: non possono non farsi sfruttare e, per questo, non ci facciamo domande se i supermercati sono sempre ricolmi di prodotti. Non ci stupiamo se in un anno e mezzo non abbiamo avvertito la mancanza di questo o quel prodotto.

Ci siamo però accorti che la povertà ha dilagato nell’ultimo anno e mezzo: le file di tutto un nuovo proletariato indigentissimo, davanti agli sportelli e uffici della Caritas, hanno fatto la cronaca di questi ultimi mesi. I cosiddetti “nuovi poveri” non sono separabili dal dramma dei lavoratori della logistica, da quelli della sanità, da quelli della cantieristica e della metallurgia; né sono separabili dai lavoratori nel settore edilizio o dagli studenti che alternano scuola e lavoro e cadono da cinque piani di altezza perché inesperti, forse pure privi di quel minimo di sicurezza che dovrebbero poter avere garantita.

I “nuovi poveri” non sono nemmeno separabili dai lavoratori che vengono asfissiati dai gas di grandi cisterne dove sono caduti per primi, dove per secondi sono cascati cercando di salvare i loro compagni ormai esanimi. E non sono separabili neppure da Luana, presa in trappola dagli ingranaggi di un macchinario manomesso. Sempre e soltanto per il profitto, per fare più soldi, per accumularne maggiormente e “stare sul mercato” con meno spese possibili.

Che queste spese comportino l’alterazione di una macchina o l’esasperazione di lavoratori contro altri lavoratori, per i padroni è ininfluente. L’alibi comodo è la pandemia: nel nome della crisi sanitaria si giustifica un po’ tutto. Anche la morte di Adil, che lascia una moglie e due figli piccoli.

Se siete poveri e pensate di non aver nulla a che fare con le lotte dei lavoratori, solamente perché non ne fate parte, non siete sfruttati in quella determinata fabbrica, se davvero pensate questo, ecco che i padroni hanno già segnato un punto nella rimodulazione della lotta di classe ai tempi del coronavirus. Vi hanno fatto credere di essere diversi, di potervi salvare in qualche modo, di avere una possibilità in più di altri. Se non si batte questa disperazione egocentrica che è tipica della divisione dei livelli di fabbrica, se non si riporta alla luce una funzione critica della lotta di classe, nessuno si salvera e nessuno potrà illudersi di essere salvato.

Ma la disperazione sociale, da sola, per quanto tremendamente e tragicamente importante, non è sufficiente ad attivare una nuova stagione di lotte sociali. Serve una commistione di forze, politiche, sindacali, culturali: dalla scuola al lavoro, senza alternanza, con la continuità della consapevolezza che da una parte c’è chi sfrutta e trae profitto dalla vita e dalla morte di chi è sfruttato e resta sempre con un pugno di briciole in mano.

MARCO SFERINI

18 giugno 2021

foto:screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli