Non necessariamente una “controstoria” deve diventare sinonimo di antistoricismo o, peggio ancora, di revisionismo. Semmai, se proprio volessimo avvicinarla ad un filone narrativo e di studio al tempo stesso, di esame comunque del passato, potremmo trovare qualche verisimiglianza nell’accostamento al saggio critico.
Per molti autori si tratta di rileggere in chiave appunto esegetica i fatti, le parole, i comportamenti singolari e sociali, le abitudini e tutto ciò che una determinata parte dell’umanità ha reso possibili attraverso il proprio, spesso inconsapevole, sviluppo.
La funzione della civiltà Europa nella storia plurimillenaria degli homo sapiens ha finito col pregiudicare una serie di liberi percorsi evolutivi: con una espansione che è stata sempre accompagnata dall’intromissione totale negli affari interni dei popoli che venivano raggiunti dai nuovi mezzi di trasporto scoperti e inventati.
Il fenomeno coloniale, che è parte di un successivo affermarsi dell’imperialismo novecentesco in piena fase di sviluppo del capitalismo globale, è il carattere riconoscibilissimo della storia moderna dell’Europa fondata sull’asse bivalente tra papato e impero, tra stati assoluti e Chiesa cattolica, in uno sbilanciato equilibrio tra poteri che sono tutto ciò che la morale può realisticamente contemplare in quanto terreno su cui edificare la percezione comune dei rapporti interpersonali e tra il popolo e le istituzioni dell’epoca.
Per questo, possiamo parlare di una Europa che ha conquistato e dominato il mondo, con la sola eccezione dell’estremità asiatica di quella Cina rimasta intatta fino a che veneziani come i Polo e fiammingi francesi come Rubruck non arrivarono, attraverso quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, ai confini del mondo, oltre il confine alessandrino dell’Indo, fin dove nessuno era, da Occidente, mai arrivato: in Mongolia, nel “Catai“.
Ma oltre le Colonne d’Ercole, se non per provare a navigare rasenti alle coste africane meridionali, nessuno aveva osato spingersi.
Si vociferava, al pari di un però più realistico hic sunt leones messo dai romani come cartello di confine subsahariano con un altro ignoto inesplorabile perché aggressivo e pericolosissimo, che là tra i flutti marini ci fossero città sconosciute, oltre all’Atlantide di cui Platone parla nel “Timeo” e in “Crizia“, e enormi mostri che emergevano e si immergevano di continuo, lasciando presagire che ogni tentativo di avventurarsi in pieno mare-oceano sarebbe stato un andare incontro a bocche ben più grandi di quelle leonine.
Ma più di tutti i racconti, le superstizioni e le paure, fu la mancanza di adeguati mezzi di trasporto ad impedire dei tentativi di traversata di una lunghezza delle acque di cui si sapeva praticamente nulla. Si presupponeva la rotondità della terra e, quindi, si dava quasi per scontato che prima o poi, circumnavigando il globo, si sarebbe arrivati nelle Indie e in Cina. Ma quanto si dovesse stare in viaggio era impossibile dirlo.
La storia la conosciamo: Colombo, le caravelle, Spagna e Portogallo, gli altri viaggi dopo il 1492 e la conquista delle Americhe. Passo dopo passo, colonizzazione dopo colonizzazione, sterminio dopo sterminio nel nome dell’evangelizzazione degli indigeni visti non come abitanti del Nuovo Mondo con una propria dignità, cultura, proprietà di linguaggio e di scrittura, addirittura con società dove una gerarchia del potere era stata messa in pratica e resisteva da centinaia di anni.
A prevalere fu la superiorità degli armamenti, la voglia di assoggettamento di quei vastissimi territori che si presentavano, agli occhi di chi portava tanto la spada quanto la croce, come un dono di Dio e, quindi, la loro scoperta era una missione nuova che gli europei ora potevano darsi e proclamare: la globale cristianizzazione del mondo, l’esportazione, se non proprio allora della democrazia, quanto meno della presupposta civiltà occidentale. Cristianissima, serenissima tra una guerra e l’altra, certamente ora assurta a potenza imperiale.
Proprio nel cinquecentenario della scoperta dell’America, quindi nell’ormai abbastanza lontano 1992, nelle scuole colombiane fu dato avvio ad una campagna di “autoscoperta della nostra America“.
Della loro, non di quella che avevamo raccontato noi europei per secoli. Il volumetto “12 ottobre 1492. Una invasione chiamata scoperta” (di Renàn Vega, Luz Marina Casto, Ismael Nájera e Clara Inés Rodrìguez, edito da Datanews in due edizioni, 1991 e 1992) è stato pensato per un racconto semplice ma esplicativo, capace di fugare tutti i dubbi lasciati da una narrazione storica che non poteva non essere influenzata dalla particolare visione dei fatti data dagli europei conquistatori.
Riprendendo ciò che si diceva all’inizio di questa presentazione, i popoli americani avevano, come recita il titolo di uno dei primi capitoletti, la loro cultura e la loro scienza.
Quella che noi chiamiamo “scoperta” cancellò entrambe e decostruì i rapporti produttivi, quelli sociali, quelli organizzativi di società che noi fatichiamo ancora oggi a considerare “civilizzate“, perché seguiamo sempre e soltanto il nostro modello di civiltà, di sviluppo e di quella che chiamavamo, un po’ prima che la globalizzazione liberista prendesse campo a tutto tondo, l'”evoluzione umana“.
In realtà, proprio da una constrostoria della conquista e della razzia fatta in continenti come quello africano o quello americano, possiamo apprendere la relatività di tanti concetti, la parzialità di tanti racconti e persino riscontrare la presupponenza arrogante di un metodo storico che, invece di basarsi sui riscontri oggettivi dei numeri di veri e propri genocidi ed olocausti, ha preferito osservare le meraviglie introdotte dagli europei nel nord, nel centro e nel sud America.
La tradizione storica occidentale, dunque, quando si parla di tutto ciò va rimessa in discussione, aggiornata con i contributi critici degli eredi di un mondo che, paradossalmente, sono, proprio per l’effetto antropologico della conquista, europei tanto quanto noi. Parlano inglese, spagnolo, portoghese, francese. Ma, per fortuna, sono riusciti ad empatizzare con una memoria e con un nuovo modo di essere che si è distinto dal carattere occidentale.
Questo almeno nei secoli successivi alla instaurazione dei vicereami inglesi, spagnoli e portoghesi tanto nel nord quando nel sud del continente americano. Quel che accadde in seguito, lo sappiamo un po’ tutte e tutti abbastanza bene, fu il prosieguo di una espansione del capitalismo che fece la sua comparsa primordiale nell’Inghilterra seicentesca e settecentesca.
Ciò che i conquistadores fecero alle popolazioni indigene resta nella Storia come parte fondante di un nuovo cammino omicidiario di una disumanità legata alla sola voglia imperialista di espansione di domini e di controllo di sempre maggiori parti del pianeta da parte di poche potenze europee. Il genocidio delle popolazioni autoctone è una sistematicità che si ripeterà da Cortés e Pizarro fino al “coast to coast” a stelle e strisce.
Le destre di oggi parlano di “sostituzione etnica” quando si riferiscono alle migrazioni dei più deboli dai continenti ricolmi di conflitti e di miseria al mondo europeo ed occidentale sufficientemente liberista da apparire ricco e benestante (certamente molto di più delle porzioni di pianeta depredate nel corso di oltre seicento anni di colonialismo…).
Ma, se si osserva con meticolosità l’avvicendarsi della nascita delle nazioni moderne che hanno diffuso e imposto le loro cultura e le loro economie al resto del mondo, non sarà difficile accorgersi di come ogni sostituzione etnica (ammesso che sia un concetto plausibile ed estrinsecabile da una qualche forma di razzismo preconcetto) è stata condotta proprio dai più forti contro i più deboli: con una tecnologia avanzata in fatto di armamenti, di equipaggiamenti e con una esperienza millenaria in fatto di massacri e di guerre nel Vecchio mondo.
Una particolare attenzione ai dettagli della Storia dell’America va posta proprio nella rilettura critica di quello che avvenne e che ci è stato raccontato non solo nei libri scolastici, che pure hanno corretto il punto di vista da un po’ di decenni a questa parte, ma anche nella filmografia che accompagna il racconto della nascita e della crescita di una nazione come gli Stati Uniti.
La narrazione degli indiani ferocissimi rappresentanti del male e dei bianchi portatori, invece, di valori di civiltà corrisponde esattamente al filone storiografico che si è fondato sul pregiudizio razzista che ha bollato anzitutto le civiltà precolombiane come dei semplici selvaggi. Al pari dei negri dell’Africa, deportati a milioni come schiavi nel Nuovo mondo e messi al servizio di una economia capitalistica e di Stati che l’hanno interpretata senza se e senza ma.
Scriveva José Martì: «La storia dell’America, degli Incas di qui, deve essere insegnata nei dettagli, anche se non si insegna quella degli arconti di Grecia. La nostra Grecia deve essere preferita alla Grecia che non è nostra. Non è più necessaria… Si innesti nelle nostre repubbliche il mondo! perché il ceppo sia quello delle nostre repubbliche».
Ovviamente il padre della nazione cubana, nel denunciare la mancanza di conoscenza degli anfratti oscuri della storia americana, pecca di sottovalutazione nell’importanza della cultura democratica ellenica. Ma non la disconosce. Perché avanti a tutto mette una piena consapevolezza di ciò che gli americani sono e devono poter essere nella libertà sociale delle nuove repubbliche che si stanno formando nel continente.
I temi trattati nel libro esaudiscono non solo tante curiosità, non solamente trattano aspetti per certi versi molto poco conosciuti ma, principalmente, tracciano una storia di resistenza all’invasione e alla coeva colonizzazione di terre vastissime, per lungo tempo e in larga parte inesplorate per la loro asprezza, in cui prese vita e si organizzò una vera e propria opposizione di massa all’espansione spagnola, portoghese, inglese e francese.
Le motivazioni economiche sono poste in primo piano e giganteggiano su un racconto che si sarebbe voluto fare ancora mediante un revisionismo storico basato sulla missione civilizzatrice dell’Europa cristiana, contro ogni paganesimo, contro ogni ignoranza della figura di Gesù come il Salvatore di una umanità che sbarcava con le croci e con i fucili e i cannoni spianati.
La demistificazione della scoperta dell’America riconduce la ricerca storica e l’approfondimento personale ad un giusto livello di critica propositiva: non scansando i pregiudizi e tanto meno le “fake news” del passato, ma affrontando il tutto con una frontalità che consente la rinascita di una opinione altra rispetto a quella, non tanto dei vincitori, quanto degli usurpatori di vite, terre, culture che avrebbero potuto conoscere un’evoluzione diversa. Magari complessa e non meno cruenta di quella che sono stati costretti a vivere, ma almeno sarebbe stata la loro…
12 OTTOBRE 1492
UNA INVASIONE CHIAMATA SCOPERTA
RENÀN VEGA-LUZ, MARINA CASTRO, ISMAEL NÀJERA-CLARA, INÉS RODRÌGUEZ
DATANEWS, 1991/1992
reperibile su IBS e altri siti come “libro vintage“
MARCO SFERINI
21 giugno 2023
foto: particolare della copertina del libro
Leggi anche: