Proviamo ad osservare ciò che accade nel mondo individuando un denominatore comune o, almeno, un minimo di legame possibile che si può trovare tra eventi apparentemente molto diversi e lontani fra loro, se non altro per le distanze geografiche che li separano.
Proprio nel primo giorno della convenzione tutta umana del tempo, di quella misura definita “anno”, un attentato rivendicato da Daesh colpisce la Turchia e fa una quarantina di morti e una sessantina di feriti.
In queste stesse ore, sempre nel campo mediorientale, proprio nella fu bella Baghdad, altri attentatori hanno seminato il panico e la morte: trentanove vittime tra varie bombe collocate nei pressi di ospedali e mercati.
Nei nostri paesi occidentali, nel contempo, i nostri governi disponevano imponenti misure di sicurezza per evitare che tir impazziti si schiantassero sulle folle festeggianti, impedendo l’accesso alle piazze dei concerti con enormi blocchi di cemento a far da barriera al possibile terrore.
Metal detector, eserciti schierati ovunque ma, rassicuravano le cancellerie europee, tutto in una confacente sobrietà di immagine, per non turbare la festa, per evitare che si potesse pensare a qualche pericolo imminente.
Ed, infatti, l’ordine politico – strategico – militare dello Stato islamico (e di chi vi sta davanti, dietro e di lato) è stato quello di non ripetere attentati scontati nelle capitali o nelle grandi città del Vecchio continente, ma di colpire la Turchia che, anche dopo il fallito colpo di stato dei mesi scorsi, ha cambiato versante nel proporsi sul cosiddetto “scacchiere internazionale”. L’avvicinamento del sultano Erdogan allo zar Putin, entrando così nell’area russo-siriana del conflitto mediorientale in corso, ha spostato le mosse di chi aveva fino ad poco tempo fa considerato Ankara un paese amico per acquisti di petrolio, per l’antica ostilità contro quei curdi – che mantiene inalterata nonostante l’occhio si volti da altra parte – che sono i nemici più disinteressati nel ginepraio siriano e iracheno e che puntano, senza troppe simpatie per questo o quello schieramento di potere economico-statale, ad ottenere una libertà totale da qualunque tirannia presente sul campo.
Questa è stata la grande lezione libertaria di Kobane e questa rimane ancora oggi la forza delle milizie miste, donne e uomini insieme, dello YPG che ricordano tanto gli eserciti antiautoritari della guerra civile spagnola nella Catalogna del 1936 e degli anni a seguire.
L’attentato nella discoteca di Istanbul, dunque, fa probabilmente parte di un cambio di obiettivi: bisogna, con l’avvicinarsi del cambio di presidenza americana, con l’arrivo di un oligarca, di un capitalista amico di un altro oligarca, dare un ultimo segnale a stelle e strisce.
Erdogan cambia rotta. Questo dice la strage: i contatti tra Mosca, Ankara e Teheran hanno praticamente isolato quelle potenze mediorientali che si sono considerate fino ad oggi gli unici interlocutori per la soluzione (ovviamente anche a loro vantaggio) della questione di due stati divisi, frastagliati e privi di un vero controllo centrale.
Iraq e Siria rimangono, ridimensionamento o meno del Daesh sul campo militare (salvo poi vedere Palmira riconquistata in parte e Aleppo ripresa dalle truppe governative di Assad; che ciò sia bene o male lo lasciamo al giudizio del lettore… il nostro si comprende, credo, dalle righe di cui sopra), la grande incognita bellica anche del 2017 e segnano le mosse di politica economica, quindi dell’imperialismo dei diversi poli che si fronteggiano (America, Russia, Europa, Cina).
I mezzi di informazione raccontano la superficialità dei fatti, ciò che ovviamente emerge da ciò che si vede: ma ciò che si vede è la punta piccolissima di un iceberg molto grande, dove si scontrano gli interessi enormi di grandi corporazioni che detengono la stragrande maggioranza della ricchezza mondiale e che sono pronte ad accettare, promuovere e veicolare mille attentati per condizionare le mosse dell’avversario che si trovano davanti in quel momento al tavolo degli scacchi.
Un attentato oggi in un determinato paese può essere la pedina di un domino che, a cascata appunto, genera una spirale perversa di sfruttamento delle vite di innocenti, come sempre del resto, perla gestione capitalistica di un mondo stanco, iperconsumato, dove, almeno agli occhi dei critici più attenti, la crisi del sistema delle merci si fa avanti senza più provare a mostrarsi come “meraviglioso sviluppo” dell’economia.
La sovrapproduzione è la genitrice prima della crisi stessa. La povertà che dilaga è l’effetto che viene mostrato come causa. Da questo inganno secolare derivano gli asservimenti di popoli impossibilitati a comprendere i complicati meccanismi del gioco del capitale: quando devi pensare a scappare dalle guerre per mantenerti in vita, il primo pensiero è sempre e solo dettato dall’istinto di sopravvivenza che ogni essere vivente detiene.
Non c’è tempo per una diffusa cultura critica di massa. Eppure, spesso, sono proprio i popoli che conoscono queste tragedie a sviluppare, nel contrasto con il nostro ricco mondo occidentale, quel senso di critica sociale, quella voglia di giustizia sociale che a noi manca.
A noi manca perché siamo anestetizzati da droghe consumistiche, da finte armonie sociali, da generose profferte di aggiustamento di questo o quel bisogno insoddisfatto come se solo lì risiedesse la fine degli incubi singoli e, al tempo stesso, di miliardi di persone…
C’è un filo, dunque, che lega Istanbul a Baghdad, le capitali europee impaurite al Daesh, Washington agli stati arabi, Mosca a Teheran, la Cina all’Africa tutta da sfruttare… ancora da sfruttare…
C’è un filo da spezzare: si chiama capitalismo, interesse, profitto, accumulazione, sfruttamento e genera guerre, morte, miseria e fame per sei miliardi di persone. Novecento milioni sopravvivono decentemente. Poi, solamente un centinaio di persone vivono: in loro si concentra annualmente la ricchezza pari a quattro miliardi di individui.
E secondo voi Daesh è figlio o padre di tutto questo? In questo 2017 provate a rispondere.
MARCO SFERINI
3 gennaio 2016
foto tratta da Pixabay