Giornata mondiale per la lotta all’AIDS. Per tutte e tutti coloro che hanno sofferto, lottato e che soffrono e lottano ancora
La maggior parte di noi ultra quarantacinquenni era appena entrata nella fase adolescenziale quando si scatenò la peste dell’AIDS. Come il Covid-19, apparve a ciel sereno, e l’amore e il desiderio divennero un rischio a seconda di come lo si voleva e lo si poteva fare. Si sapeva ben poco negli anni ’80 di quel virus da immunodeficienza che dalle scimmie aveva fatto il salto di qualità fino all’essere umano: che fiaccava il nostro sistema difensivo contro molte malattie, che avrebbe potuto portarci alla morte in breve tempo perché non esisteva nessuna cura che lo potesse, se non sconfiggere, almeno tenere a bada. Il mondo venne a sapere dell’esistenza dell’HIV il 5 giugno del 1981 ad Atlanta negli Stati Uniti d’America: i ricercatori riconobbero la patologia in cinque omosessuali malati di polmonite.
E fu probabilmente da allora che per molto, per davvero troppo tempo, l’HIV (ed anche il suo sviluppo nell’AIDS) fu per giornali e televisioni la malattia dei gay e dei “drogati“. Sangue e sperma vennero individuati, infatti, come principali veicoli del virus, per cui i tossicodipendenti rischiavano enormemente per lo scambio di siringhe e gli omosessuali per i rapporti promiscui con molti partner differenti. Aver scoperto l’infezione in giovani gay di Los Angeles, aveva messo uno stigma consequenziale sulla comunità omosessuale, non solo statunitense, ma mondiale.
La malattia era di categorie che una parte della società, perbenista, bigotta e borghese considerava abiette per pratiche deleterie per il fisico e per l’animo: deviati in tutti i sensi possibili. La droga e il sesso anale, la siringa e il rapporto occasionale finalizzato non alla procreazione, tipica del rassicurante focolare domestico, bensì alla pura e semplice soddisfazione del proprio e altrui piacere. In un attimo parvero avverarsi tutti gli anatemi del passato, le condanne verso Sodoma e Gomorra, facendo giganteggiare un perbenismo che invece nascondeva tanti “vizi privati” che non uscivano dal loro cono d’ombra e che si nascondevano dietro terribili sofferenze, nonostante tutto…
Siccome era la malattia dei tossici e dei froci, la stragrande maggioranza di chi non si drogava o non aveva rapporti sessuali anali (essenzialmente…) si sentì affrancata dal pericolo di contrarla. Ma poiché questa errata deduzione stava prendendo pericolosamente piede in ogni parte del mondo, qui in Italia venne fatta una campagna di informazione della “Pubblicità Progresso“ che, pur non sapendolo, ci avrebbe sinistramente accompagnato per il resto della vita. Almeno a noi che abbiamo passato i quarant’anni: un alone violaceo bluastro circondava qualunque “normale” persona, che potesse essere considerata tale e che, invece, era potenzialmente infetta, portatrice del virus, dello stigma, della vergogna. Perché contrarre l’HIV voleva significare infedeltà coniugale nel migliore dei casi, frequentazione di prostitute nella fascia media della casistica della “gravità” sociale indotta dalla morale imperante e, nei casi peggiori, un coming out o una condanna a morte per molti omosessuali che, almeno nella sfera intima, cercavano quella libertà e disinibizione che la società gli negava pubblicamente.
Fu ben presto una pandemia, iniziata ben prima di quanto si era pensato: studi recenti affermano che già nei primi anni ’60 l’HIV era passato dagli scimpanzè alla specie umana e che dall’Africa ad Haiti era finito poi negli USA dove si era diffuso indisturbatamente per molto tempo. Furono le morti di celebri personaggi dello spettacolo a sbattere il mostro in prima pagina e a farlo conoscere al mondo in tutta la sua indiscriminata forza. Rock Hudson seppe di avere già sviluppato l’AIDS nel 1984 e morì l’anno seguente. Il virus aprì sull’attore americano una caccia alle notizie sulla sua “vita segreta” e tutti scoprirono che era gay. Ed ecco che ritornò in auge lo stigma, figlio del collegamento ormai istintivo, di massa, tra HIV e omosessualità.
Ma la morte di Hudson dimostrò alla cosiddetta opinione pubblica mondiale che il virus non era una malattia per reietti ed emarginati, per pervertiti e deviati, considerati tali soltanto perché finiti gli uni ne tunnel della tossicodipendenza e gli altri perché colpevoli di amare non secondo i classici canoni della buona creanza e della morale familistica religiosamente benedetta e protetta. Il caso di Rock Hudson dimostrò che il virus era altamente democratico e che, al pari di tutti gli altri virus, compreso il Covid-19, non aveva pregiudizi e non si precludeva nessun contagio: non c’era classe sociale che potesse sentirsi immune e la scienza, per quanto potesse essere sedotta dal denaro dei ricchi, mostrò l’amara e semplice verità: abbienti o straccioni, ricchissimi industriali o poverissimi sottoproletari dei sobborghi delle grandi metropoli del mondo, l’HIV era un destino comune se non si fossero adottate certe regole di prevenzione e di precauzione.
Cominciò in quei tempi, di vera e propria informazione altamente approssimativa, una organizzazione sociale dal basso che reclamava i diritti civili unitamente al diritto di non essere discriminati anche e oltremodo per una malattia che non era e non poteva essere una colpa. Il marchio del “castigo divino” fece il paio con quello della laicissima responsabilità dei propri comportamenti («Se la sono andata a cercare». Vi suona nuova come bestemmia disumana?): irreprensibili madri e padri di famiglia, casa, lavoro e chiesa, non potevano essere uguali in considerazione al drogato o al finocchio. Ci doveva essere una ragione, una giustificazione per poter relegare HIV e AIDS al solo ambito delle cosiddette “devianze“, evitando psicologicamente di riconoscere che – purtroppo – il virus era patrimonio infausto di una uguale umanità.
La disuguaglianza come concetto positivo della società degli ottimati e l’uguaglianza invece ad indossare i panni della dea Nemesis, della vendetta che torna e che tormenta i peccatori, lascivi, indecenti, invertiti, alla ricerca solo dell’estremità oltre il quale l’eros si sublima nel piacere ma viene condannato proprio per questo. Per essere felici, per sopravvivere alla pandemia dell’HIV e dell’AIDS, pareva di dover obbedire ad una asincronia esclusiva (ed esclusivista) tra mente e corpo, tra ragione e sentimento, tra emozione e corporalità. L’eccesso era nuova mente messo all’indice: excedere, oltrepassare un confine, un limite imposto, innaturale e fatto divenire invece norma e consuetudine, quindi naturalità indotta, non era permesso moralmente prima; ora farlo voleva farsi scaraventare addosso la croce dell’irresponsabilità, dell’incoscienza.
Tutte sensazioni e propensioni che nessun omosessuale ha mai ambito ad avere e che nessun tossicodipendente ha mai davvero voluto: i perbenisti borghesi hanno per lunghi decenni letto cronache sulla sindrome da immunodeficienza umana che dovevano rassicurare chi intendeva preservare salute ed onore, lasciando allo stimolo interiore della provocazione tutto il lavoro per rimettere pazientemente in moto la macchina dei “vizi privati e pubbliche virtù“. Così, a poco a poco, mentre la scienza indagava e scopriva nuovi farmaci per tenere a bada il virus, tossici, gay, lesbiche, transessuali e chiunque volesse vivere la propria sessualità senza recinti di sorta restavano all’ombra della stigmatizzazione permanente.
Forse anche la pandemia da Covid-19 in questo senso può insegnare molto: ci ricorda che la vulnerabilità davanti alla natura è nella natura stessa: siccome noi ne facciamo parte (per disgrazia della natura medesima), non ci è risparmiato nulla e nessuna tecnologia avanzata potrà mai garantirci di non ammalarci davanti ad un nuovo progetto di ingegneria molecolare che evolve e si materializza nel nostro limitrofo ambiente.
Forse più ancora dell’HIV, il cui decorso sociale è avvenuto lentamente nel corso degli anni ’80 e ’90 del secolo passato, il Covid-19, per il suo impatto improvviso, totalmente inaspettato e, soprattutto, aggressore non riconducibile a comportamenti umani legati alla sfera sessuale, quindi alla diretta connessione con la morale, il peccato, il pentimento e il perdono, può rafforzarci nella convinzione che i virus non sono una colpa e che l’amore non è mai sbagliato, così come non lo è il desiderio che vuole condividere ed esaltare una comune felicità.
Colpa è tramutare amore e desiderio in istinti meccanici, volti soltanto alla soddisfazione di un godimento fine a sé stesso. Questo virus, quello dell’amore rubato, del desiderio tramortito dalla morte del desiderio altrui, indotto dalla costrizione è il vero virus, il peggiore che ci possa capitare quando vogliamo provare delle sensazioni inebrianti. Non è amore, non è desiderio, ma solo brutalità disumana, violenza cieca e nemmeno l’HIV, nella sua incoscienza, potrebbe essere accusato di tanto.
La lotta contro ogni pregiudizio, ghettizzazione e riproposizione delle ataviche colpe, tanto religiose quanto laiche, deve proseguire. Nell’assolutismo mediatico della pandemia, non possiamo e non dobbiamo scordare che un vaccino per l’HIV non esiste. Ma si può vivere, oggi, con aspettative inimmaginabili anche soltanto dieci anni fa. Questo non vuol dire abbassare le difese immunitarie della nostra consapevolezza del pericolo: dobbiamo non ammalarci, per noi stessi, per chi ci vuole bene e per evitare il diffondersi del virus, qualunque sua recrudescenza. Dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri e proteggendoci sempre.
Proteggendo i più fragili, gli indifesi, i più deboli: socialmente, economicamente, emotivamente. Tutti coloro che sono vittime dell’omofobia e della transfobia, del disprezzo, dell’odio che sfocia nella violenza. Le malattie da curare sono tante. Ma quelle più insidiose stanno nei meandri più bui e inconfessabili del nostro animo che è facile preda dello spirito di gruppo, della forza della massa contro il singolo. Nessuno deve rimanere da solo. Nessuno deve lasciare da solo nessun altro. Se non potete fare nulla di pratico, almeno ascoltate: da amici, da semplici perfetti sconosciuti che si offrono per smorzare il gelo dell’isolamento dei sentimenti dentro ognuno di noi.
Se nessuno è lasciato da solo, ogni pregiudizio avrà vita dura per farsi strada nella vita quotidiana e forse saremo tutte e tutti un po’ più liberi di amare oltre ogni malattia, oltre ogni giudizio, oltre ogni odio.
MARCO SFERINI
1° dicembre 2020