La memoria della Resistenza non basta più per fronteggiare la spavalderia dell’incultura razzista, xenofoba, intollerante che monta nel Paese: non è sufficienti rifarsi ai fatti storici che hanno fondato la Repubblica democratica e ai princìpi della democrazia stessa per contrastare una opinione pubblica permeata dall’esatto opposto di quanto viene enunciato nella Costituzione.
Le forze politiche rimaste a sinistra, collocate in un ambito ideologico anticapitalista e antiliberista, devono porsi una missione preventiva rispetto a quella fondante e fondamentale del cambiamento sociale: se vogliono provare a metterlo in pratica, prima di tutto occorre che si rimettano in discussione senza palingenesi di sorta, ma semplicemente partendo da un punto di vista differente rispetto all’intervento sul sociale come premessa per un rovesciamento anche culturale della società.
Serve una nuova forma di resistenza, di tipo culturale e sociale. I rapporti di forza ci dicono che le forze progressiste (e quindi anche e soprattutto quelle anticapitaliste) sono sconfitte.
Quindi pensare di creare le condizioni per un ribaltamento della coscienza civile sulla base di una inesistente coscienza di classe è fuori da ogni dialettica marxista e, prima ancora, dal buon senso politico.
Scrive Gramsci: “Si può osservare in generale che nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono diventate così complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e specialisti e quindi a creare un gruppo di intellettuali specialisti“.
Praticamente alla genericità della cultura, analizza Gramsci, viene avanti con il capitalismo moderno una parcellizzazione del sapere e dell’apprendimento che viene indirizzato ad esclusivo vantaggio della formazione di tante classi dirigenti intellettuali ed economiche a protezione del capitale prodotto nei diversi settori di lavoro.
A proposito dello sviluppo culturale che deriva dalla struttura economica della società, Gramsci vede bene che “un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista ‘personalità’, è un ‘momento’ dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una ‘punta’ storica.“.
E noi oggi possiamo trovare la nostra “punta storica” nel capovolgimento morale e, conseguentemente, civile di una visione della società globale fondata sulle piccole patrie, sulla difesa individualistica della proprietà tanto economica quanto tradizional-culturale delle origini familistiche. Un autoctonismo di nuovo modello imperniato sul timore della scomparsa della “civiltà occidentale”, quindi della propria scomparsa come individui caratterizzati da una cultura millenaria minacciata da altre culture altrettanto longeve.
Ogni fobia antisociale nata negli ultimi decenni è stata utilizzata dal capitalismo per ingenerare questo capovolgimento culturale, per sovvertire il piano della solidarietà tra i popoli con il piano della difesa delle nazioni dentro, si intende, un contesto di pieno regime liberista che porta in alto gli egoismi e appiattisce tutto ciò che vorrebbe orizzontalizzare le dinamiche emotive e creare un sentimento di uguaglianza o, almeno, tendente alla medesima per estendere la critica sociale e quindi la giustizia sociale medesima.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sotto le macerie materiali e morali di una disumanità totale, la fratellanza tra i popoli era percezione comune tanto nel sentire politico dei comunisti e dei socialisti quanto in quello di forze politiche e governi liberali: la necessità della ricostruzione economica imponeva la morale “solidale”.
La forza delle sinistre era tale da spingere in questa direzione, soprattutto in Italia. Siccome tutto muta velocemente e nulla, per primi i diritti, sono imperituri, l’onda lunga dell’arricchimento di un ceto medio prima collocato nel proletariato post-bellico ha a poco a poco cambiato la struttura economica del Paese e ha sostituito la solidarietà sociale con la necessità della “ricchezza” del Paese, genericamente inteso. Una sorta di pace sociale non detta e non scritta, praticata con la sostituzione del privato al pubblico nei maggiori settori economici e, quindi, trascinante con sé l’ideologia liberista, individuale, del “self made man” tipica della Repubblica stellata.
Poi, indubbiamente, i fenomeni internazionali hanno condizionato le menti, hanno distorto concetti e trasformato certezze in eterni dubbi: la paura ha preso il posto della sicurezza e quando ogni futuro di vita è diventato una variabile dipendente solamente dalla volontà dei grandi finanzieri e delle grandi strutture bancarie continentali, allora al posto fisso si è sostituita la precarietà e, in assenza di un “pubblico” forte, sono venute meno certezze riposte in una sinistra che da comunista diventava socialdemocratica per finire ad essere centro-sinistra e poi solamente centro.
A difendere valori egualitari sia in campo sociale sia in campo morale e civile sono rimaste le associazioni partigiani, i sindacati (e nemmeno tutti) e ormai piccole formazioni comuniste logorate da desistenze, accordi di governo, logica del “meno peggio” e tentativi disperati di rientrare in Parlamento con soluzioni pasticciate dell’ultimo momento.
Oggi prevale il “sovranismo”, quindi la sintesi peggiore tra nazionalismo ideologico e nazionalismo economico: unisce razzismo, xenofobia, difesa dell’italianità a liberismo provinciale con liberismo transcontinentale.
Contraddizioni, come osservava Gramsci, di un momento storico fondante, anzi “costituente” un passaggio da una società italiana ad un’altra.
Per questo chi di noi è un “resistente umano”, quindi consapevole dell’orrore dell’anticultura inumana che progredisce, deve rispondere a tono ai razzisti, a coloro che ostentano sicurezza oltre ogni vergogna, decenza oltre ogni indecenza, moralità oltre ogni rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.
Bisogna ripartire dai cosiddetti “fondamentali” e ricostruire un tessuto sociale attraverso un ambito culturale rinnovato, ridefinito.
Per farlo, però, servono strumenti come: un partito comunista dentro una sinistra di alternativa non settaria e visionaria; un sindacato che torni ad essere classista e un coinvolgimento dei giovani in un avvicinamento ad un processo critico fatto di semplici parole.
Dobbiamo attrezzarci in questo modo, altrimenti senza una battaglia culturale non riusciremo, paradossalmente, a far evolvere nessuna coscienza sociale, per quanto sia proprio l’essere sociale a determinare, invece, la coscienza.
E’ il paradosso di tempi bui, terribili, fatti di crudeltà e odio a buon mercato.
Ormai il vecchio razzismo parolaio ha lasciato il posto al disprezzo. Un gradino più in basso nella scala del pressapochismo di un popolo che, unico nell’Europa occidentale, è privo di una coscienza laicamente repubblicana.
MARCO SFERINI
14 giugno 2018