Siamo disertori, perché non c’è più pace

Perché sosteniamo la lista PACE TERRA DIGNITA’ di Michele Santoro e Raniero La Valle? La domanda è legittima, soprattutto perché non si tratta della classica lista pseudo-unitaria a sinistra...

Perché sosteniamo la lista PACE TERRA DIGNITA’ di Michele Santoro e Raniero La Valle?

La domanda è legittima, soprattutto perché non si tratta della classica lista pseudo-unitaria a sinistra che, all’ultimo momento, mette insieme tutto quello che può raccattare per cercare di raggiungere il 4% ed eleggere al Parlamento europeo. O, per meglio dire, ha questo obiettivo, ma non nasce dalla disperazione politica tout court, da una necessità contingente che riguarda esclusivamente l’hic et nunc dei calcoli di partito.

Nasce, da subito, per ammissione di tutti coloro che la compongono, come “lista di scopo“: non quello di federare la sinistra di alternativa in vista del voto e di successivi passaggi in merito.

Ma quello di portare dall’Italia in Europa delle voci che siano ambasciatrici di pace, contro il riarmo, contro ogni guerra, dall’Ucraina a Gaza, dall’Africa al Pacifico, per affermare una alternativa politica, sociale e civile, nonché culturale, ad una sorta di pensiero unico rinnovato e ritrovato dal liberismo nordatlantico proprio nello scontro multipolare.

Uno scontro che non è tutto interno alle pure ferocissime regole della concorrenza e del mercato ma che, avendo proprio il mercato esaurito tutta una serie di fette di offerta, di sfruttamento di risorse e di soffisfazione di una domanda sempre meno ampia, vista la crescente povertà dentro un contesto di crisi ambientale davvero preoccupante, ora si rifà dei capitali perduti.

E lo fa con l’implementazione della produzione bellica e con quella di tutte le tecnologie preparate non per migliorare la vita sul pianeta, ma per distruggere e annichilire, per peggiorare e per rendere ancora più inabitabile la nostra casa comune. Pace Terra Dignità è, quindi, una lista che ha come obiettivo anzitutto dire apertamente che né ad est né ad ovest c’è il campo giusto. Non c’è una parte che ha ragione in assoluto e una che ha altrettanto in assoluto torto.

Perché l’Occidente avrebbe ragione nel difendersi dalla minaccia putiniana se la NATO non avesse, per lungo tempo, operato nella direzione della propria espansione proprio verso la Russia. Soprattutto dopo la fine del Patto di Varsavia. Chi racconta di un ruolo difensivo dell’Alleanza Atlantica, mente sapendo di mentire. La NATO è una provocazione armata nei confronti di chi le sta vicino.

E chi le sta vicino, guarda caso, è la Russia. Tutto questo non prescinde dal tipo di governo che Putin ha creato durante il suo lungo regno presidenziale, perché è ovvio che la politica influisce sulle scelte militari e viceversa.

Ma entrambe rispondo ad un intento di preservazione e di ampliamento delle forze di singoli poli economici che si sono sviluppati dopo la fine del bipolarismo della Guerra fredda e dopo, soprattutto, la fine della fase unipolarista (1989-2008/2009, azzardando un po’ di confini temporali, assolutamente imprecisi).

Sempre più spesso la semplificazione estrema e, quindi, nettamente banalizzante del dibattito politico trasforma le questioni internazionali in scenette da mediocre operetta di provincia, utilizzando frasi fatte, luoghi comuni e pregiudizi arcaici che si sommano ad ideologismi snaturati dai loro contesti per tornare attuali magari come riedizione di complottismi tanto nell’estrema destra quanto nella sempre più improbabile estremità di una sinistra che finisce col somigliare ai neonazionalisti moderni.

Per cui, se si prova a far emergere le contraddizioni tanto del mondo occidentale quanto quelle del mondo in cui non viviamo, ergo quello dell’Est e dell’Oriente, la prima delle ovvietà in cui si incorre come accusa consueta è quella di filoputinismo da un lato e antisemitismo dall’altro. Tanto per citare le due guerre più prossime al Vecchio Continente e, ugualmente, frontiera verso quei due poli alternativi all’americanismo totalizzante: Russia e Cina.

Provare a rispondere ad una domanda di pace che, nonostante le decine e decine di miliardi di euro spese dai nostri governi, proviene dalla grande maggioranza del popolo italiano (almeno sei concittadini su dieci dicono di essere contrari a nuovi invii di armamenti all’Ucraina, così come ad Israele e, più in generale, ad una teoria-pratica del riarmo in senso lato), è una priorità emergenziale per chi fa politica.

O almeno, visti i risultati molto modesti, in questo frangente, del cosiddetto “campo progressista“, dovrebbe esserlo.

Il PD di Elly Schlein sventola la bandiera della pace con una mano e con l’altra vota a favore dell’invio di armi. I Cinquestelle di Giuseppe Conte sono più risoluti: sono contro una impostazione permanente dell’economia di guerra europea nei confronti della Russia, ma poi, se interrogati sulle elezioni americane, almeno stando alle dichiarazioni dell’avvocato del popolo, non riescono a condannare senza se e senza ma la lucidissima, interessata follia di Donald Trump.

La sinistra di Fratoianni e Bonelli è quella più coerente con la propria storia di ecosocialismo, ma rimane pur sempre nell’orbita del campo giusto e, quindi, di sponda vive alcune delle contraddizioni citate.

Sembra, oltremodo, che vi sia una sorta di timidezza, dettata dalla necessità di non apparire equidistanti dagli attori delle guerre in atto, preferendo una simpatia verso le democrazie in quanto tali che, proprio perché tali sulla carta, lo dovrebbero anche essere nella realtà, nonostante i conflitti sparpagliati sul pianeta a partire dagli anni ’90 del secolo scorso fino ad oggi.

Riconsiderare i termini del pacifismo vuole dire, soprattutto odiernamente, ricalibrare il giudizio che, troppo frettolosamente, abbiamo dato tanto sulle virtù democratiche date per scontate dopo la Seconda guerra mondiale nei confronti degli Stati Uniti e dell’Europa progressivamente e ambiguamente unita, quanto sul carattere totalitario di regimi alieni al nostro modo di intendere la società e la politica.

Bisogna sgomberare il campo da tutta una giaculatoria di riduzionismi al minimo necessario, all’evidenza anzitutto, che impoverisce il confronto perché superficializza e non permette di andare all’origine delle questioni. Le guerre che viviamo oggi attraverso la comunicazione di massa, praticamente onnipresente in ogni momento della nostra giornata, sono il frutto di processi pluridecennali.

Tanto quella tra Russia e Ucraina (quindi tra Russia e NATO), quanto quella tra Hamas e Israele (quindi tra gli opposti estremismi dello jihadismo palestinese e del sionismo iper-religioso della destra di governo), sono guerre che affondano le radici non nella novità politica del nuovo millennio ma ben dentro le grandi contraddizioni del Novecento.

In particolare la questione dell’indipendenza di una repubblica palestinese che non si è mai potuto concretizzare, così come – è bene sottolinearlo – lo stesso Israele non è mai riuscito a divenire compiutamente quella democrazia libera dal regime di guerra permanente cui è tristemente abituato.

Ecco un concetto da riprendere: la guerra senza fine. Soprattutto quella non propriamente intesa come fronte che si muove sul terreno, ma come fronte interno ai popoli, come linea di confine che pervade i diritti, che li annichilisce, che distrugge alla radice l’essenza di intere comunità: dal Donbass alla Cisgiordania, dal Kurdistan al Chiapas, lasciano sullo sfondo vecchi conflitti che si sono sopiti con il tempo trascorso sugli statuti autonomistici e su indipendenze ancora parzialmente irrisolte. Si pensi ai Paesi Baschi o all’Irlanda del Nord.

In realtà, noi riusciamo a capire la vera natura imperialista della guerra, come espressione duplice dell’unità tra potere economico e potere politico, se non prendiamo per buone le ragioni di entrambe le parti aprioristicamente, ma le mettiamo sotto la lente della Storia e cerchiamo non il confine della moralità superiore da quella dell’inferiorità atavica che avrebbero gli Stati non legati ad uno sviluppo illuministico e democratico tipicamente occidentale ed euro-americano, bensì il limite tra principio democratico e messa in pratica del medesimo.

Gli interessi economici e finanziari in ballo sono tanti e tali che è praticamente impossibile trovare un paese in cui vi sia perfetta aderenza tra enunciazione dei valori liberal-democratici e loro completa concretizzazione nella quotidianità della vita dei popoli. Ma questo non vuol dire azzerare le differenze. Partendo dalle parole di Sandro Pertini: «E’ meglio la peggiore delle democrazie, della migliore di tutte le dittature», traiamo la lezione della Storia stessa.

Si deve lavorare ad una soluzione dei problemi avendo chiare le distinzioni che gli stessi determinano entro le singolarità e le specificità che si vengono a creare.

La pace, come valore universale di convivenza tra tutti i popoli, è una esigenza non negoziabile, ma lo è a partire proprio dalla ricerca della negoziazione diplomatica, dell’attivazione dello strumento politico non come ingigantimento dei conflitti ma come risoluzione degli stessi attorno ad un tavolo dove devono sedere anzitutto i contendenti. Invece, tanto a destra quanto in una certa parte della cosiddetta sinistra progressista, c’è chi conserva la malsana idea che una delle due parti debba prevalere.

Perché rappresenta il mondo libero e democratico e, quindi, non può essere sconfitta. Le parole di Charles Michel sono clamorosamente emblematiche: paiono il titolo di un nuovo manifesto europeo tutto votato ad una esclusiva logica di guerra, dove non c’è spazio per il recupero di una mediazione, ma soltanto per un aumento di quelle spese militari che, ad oggi, superano cinque volte tanto quelle russe (cinquecento miliardi spesi dai Ventisette della UE contro i cento miliardi spesi dal Cremlino).

Il sostegno alla lista promossa da Santoro e La Valle risponde esattamente alla nostra contrarietà a questa economia ed a questa politica improntata sulla finta prevenzione della guerra con un riarmo totalizzante, che mette da parte i bisogni sociali, i diritti del mondo del lavoro, quelli civili e, non di meno, anzi per primi, i diritti umani.

I governi dei paesi membri della UE fanno a gara, smentiti persino dalle alte dirigenze di Kiev, a chi per primo invierà contingenti di terra verso la frontiera con i russi in Ucraina.

Truppe NATO, nella ipocrisia della “guerra per procura“, sono già sul terreno da poco dopo l’inizio della cosiddetta “operazione speciale” di Putin. Quindi la finzione del sostegno al popolo aggredito è e rimane tale, perché l’interesse degli Stati Uniti e della NATO va, nella logica degli opposti imperialismi, oltre la semplice tutela tanto dei russofoni da un lato quanto degli ucraini dall’altro. Ma sulla pelle dei popoli la guerra si gioca cinicamente. Sempre.

La lista che proponiamo di sostenere non è un “contro” le altre liste, ma anzitutto un “per la pace“: mettere nel cuore dei programmi politici di oggi questa esigenza globale è strutturale, è fondamentale perché oggi la pace è davvero rivoluzionaria. Se riesce ad imporsi, scombussola i piani di un multipolarismo genocida. Non bisogna esagerare con le parole, ma non bisogna nemmeno privarsene per troppa cautela, per non dispiacere al “buon senso comune“.

Ed è per questo che in Ucraina si può parlare di aggressione, di massacri indiscriminati ma non di genocidio. Mentre è, purtroppo, possibile farlo nel caso di Gaza e del popolo palestinese.

Dobbiamo dare alla pace la sua opportunità. Dobbiamo spernacchiare i teorici della guerra a tutti i costi: dobbiamo stare dalla parte di una coscienza laica, costituzionale e al tempo stesso molto morale. Una coscienza animale, prima ancora che umana. Non da esseri primitivi quali eravamo, ma da nuovi esseri viventi quali possiamo diventare.

Tramite una politica che punti all’azzeramento delle spese per le guerre, al disarmo, alla cultura della reciprocità e della vicendevolezza come elementi di ricchezza.

Essere di sinistra vuol dire, oggi come ieri, stare da questa parte: quella che non pensa che qualcuno debba vincere, ma che tutti la debbano finire di combattere e l’Europa, l’Italia intraprendano un cammino di nuova mutualità che era l’originaria ispirazione per la rinascita del Vecchio continente.

Dopo, appunto, la fine della più devastante guerra mai avvenuta.

MARCO SFERINI

2 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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