Precipizio disinformativo italiano in un mondo di false notizie

Da “abbastanza buona” a “situazione problematica“. La differenza tra il quarantunesimo e il quarantaseiesimo posto nella classifica della libertà di stampa, redatta come ogni anno dall’associazione internazionale “Reporters Sans...

Da “abbastanza buona” a “situazione problematica“. La differenza tra il quarantunesimo e il quarantaseiesimo posto nella classifica della libertà di stampa, redatta come ogni anno dall’associazione internazionale “Reporters Sans Frontieres” (che è consulente dell’ONU), sta tutta in due locuzioni sufficientemente chiare.

In pratica, nella cartina di un mondo colorato variamente a seconda dei gradi di libertà o meno di informazione e di pluralismo, il nostro Paese ha la stessa tinta dell’Ungheria di Orbán o dell’Ucraina di Zelens’kyj. Certamente peggio va in Russia, in Turchia, in Iran, nel complesso e variegato mondo delle autocrazie, petrolmonarchie e dittature arabeggianti.

Non meglio va in Cina, India, Venezuela e Cuba. Ce n’è un po’ per tutti. Anche gli Stati Uniti rientrano nella forbice numerica in cui cade l’Italia meloniana. Si salvano solo la Mittle e il Nord Europa, il Canada e l’Australia. Chiaro che i parametri con cui viene compilata la classifica sono opinabili, ma i marcatori della libertà di stampa e di informazione sono comunque poco discutibili.

O in un paese c’è la possibilità di criticare apertamente la maggioranza, il proprio governo senza essere per questo oggetto di discriminazioni, violenze, vessazioni, carcerazioni e pure torture o, se non c’è, è evidente che ci troviamo davanti ad una situazione per l’appunto “problematica” per quello che invece la nostra Costituzione garantisce a tutto tondo.

Paradossalmente, proprio un paese come l’Italia, con una Carta fondamentale in cui sono riconosciuti (e non “concessi”!) i diritti universali dell’uomo e del cittadino, senza distinzione alcuna – come enunciato dall’articolo tre -, ci si può ritrovare nel 2024 nella condizione pratica di avere un pluralismo zoppicante che, a onor del vero, è divenuto abitualmente tale dalle prime stagioni governative berlusconiane.

La concentrazione dei mezzi di informazione nelle mani pochi editori, ancor più se interessati direttamente alla vita politica della nazione, non è un campanello d’allarme, perché è già l’allarme in essere, concretamente risolto nella finzione tra le pari opportunità offerte a tutti di parlare, criticare e redarguire l’operato del governo (o dell’opposizione), e la traduzione pratica di questo principio.

Ne sa qualcosa proprio la nostra Costituzione e, quindi, ne dovremmo essere ben consapevoli noi cittadini per primi: una cosa è il principio enunciato, scritto e proclamato; un’altra è la sua validazione concreta giorno dopo giorno. Se c’è questa correlazione, se non viene meno, se non cede sotto le pressioni del potere che, inevitabilmente, è portato ad evitare le stigmatizzazioni, allora i reporter senza frontiere possono registrare una abbastanza buona tenuta della libertà di stampa.

Altrimenti, secondo parametri che uniscono democrazia a liberalismo, dobbiamo convenire che ci troviamo in presenza di regimi nominalmente democratici ma, nel concreto, rasentanti, nel migliore dei casi la “democratura” o, peggio, l’autocrazia di una maggioranza sulle minoranze. E, diceva Thoreau, quando i diritti delle minoranze non sono rispettati, allora il diritto primo è di resistere al peggiore dei governi: quello che governa tanto.

Ogni nazione meriterebbe una storia a parte, pur nel contesto della globalizzazione totalizzante del mercato che detta, ovviamente, le regole alla politica e, pertanto, ai canali di (dis)informazione di cui si serve per gestire il consenso tra le masse. Qui, quello che preme sottolineare, è la sufficienza dei parametri stabiliti: sono parziali se considerati sotto la lente delle differenti interpretazioni politico-sociali dei singoli Stati, ma sono pur sempre un punto da cui partire.

Se non altro per cercare di stabilire una uniformità dei diritti tanto di chi fa informazione quanto di chi la riceve. Se, infatti, decidiamo che è diritto di tutti esprimere le proprie opinioni, di scriverle, di diffonderle e di propagandarle, non dobbiamo cadere sul terreno della mera ingenuità pensando che queste stesse di per sé sono tali a prescindere dai contesti in cui nascono o, invece, non possono nascere.

Dobbiamo intenderci sul concetto di “libertà” di espressione, come, del resto, di tutte le altre libertà. Se affrontiamo questo problema di conoscibilità della libertà, quindi di verità della stessa nell’ambito della quotidianità di noi tutti, siamo consci della soggettività cui viene sottoposta, molto più di altri concetti e forme relazionali, la parola e la pratica della “libertà“.

Ciò che per noi è illiberale e antilibertario, può essere considerato libertà in altre parti del mondo. Ma c’è un termometro indiscutibili nella misurazione della libertà oggettiva: il rispetto dei diritti fondamentali di ogni essere vivente. Con un certo grado di approssimazione per molto difetto, possiamo ad esempio dire che l’esistenza degli animali non umani non è rispettata in praticamente nessuna parte del pianeta.

Mentre con un grado di approssimazione per eccesso si può ad esempio dire che i diritti umani sono rispettati negli Stati Uniti. Se pensiamo alle tante torture perpetrate nelle prigioni, alla repressione del dissenso, alle basi all’estero in cui sono successi orrendi crimini (Guantanamo, Abu Ghraib… e l’elenco è molto lungo…), è evidente che l’approssimazione citata è molto sovrastimata.

Una democrazia che non rispetta i diritti fondamentali dell’essere umano, può dirsi anche una nazione in cui le libertà come quella di espressione e stampa possono trovare la loro giusta concretizzazione giornaliera, costante e fluente? Siccome viviamo in un mondo contraddittorio, sì, si può affermare, visto che dentro il concetto di “democrazia” si riescono a far stare tanto i princìpi illuministici quanto quelli militaristico-imperialisti.

Nessuna sorpresa che la classifica dei reporter senza frontiere declassi molti paesi del moderno Occidente in quanto a libertà di stampa e di informazione. Al sistema economico liberista, che è quello dominante su scala globale, non interessa il prezzo da pagare per mantenersi in equilibrio sul pericoloso crinale della crisi ecologica e ambientale mondiale.

Se il prezzo è la riduzione dei diritti civili, si farà pagare il costo ai più disgraziati di questa terra: dai migranti ai popoli sotto le bombe tanto russe, quanto quelle della NATO che fa le guerre per procura; oppure ai palestinesi che danno noia allo strapotere israeliano nella regione mediorientale. Non si tratta più soltanto di una questione interetnica. Anzi, forse non si è mai trattato solamente di questo.

Alle fondamenta della regressione (anti)culturale e immorale di vaste aree del pianeta che si potevano, almeno nel corso del Novecento, dire civilizzate e libere da una sequela di pregiudizi a sfondo sessuale, razzistico ed anche religioso, vi è la coperta sempre più corta di una economia in netta retrocessione. Il multipolarismo mondiale ha determinato uno scompenso di fattori che ha, di fatto, impedito al modello liberista nordatlantico di affermarsi nuovamente come fenomeno unipolare.

Questo ha chiaramente innescato una profonda lacerazione interna alle economie continentali che, a sua volta, ha prodotto l’alterazione di quelle alternanze alla guida dei governi, rompendo schemi consolidati e aprendo la strada ai populismi, ai sovranismi che si sono messi in moto con un neocapitalismo aggressivo e spregiudicato di cui sono portabandiera Trump e Bolsonaro per primi, insieme ai loro replicanti europei; ma pure Suniak in Gran Bretagna ed Orbán in Ungheria.

L’interpoliticismo della crisi è pari all’interclassismo a cui si vuole affidarla per confondere le acque, per mescolare sfruttatori e sfruttati e dividendo i popoli per origine, per colore della pelle, per paure, per sindromi fobico-sociali, per nuovi razzismi ed etnicismi nazionalisti che imperversano largamente da Washington a Buenos Aires, da Tel Aviv fino al cuore della vecchia Europa.

Se la libertà di espressione e di informazione è in crisi verticale, questo è dovuto, anche in Italia, ad una debolezza strutturale delle democrazie liberali che, invece, secondo certi teorici nordamericani, avrebbero dovuto essere l’ultima frontiera utile di una umanità arrivata praticamente alla fine della sua storia evolutiva.

In questo senso, l’Occidente ha sempre meno da insegnare sul piano della morale e del diritto a quei paesi che classifica come dittature. In molti casi lo sono, in altri, differenziandosi dal modello a trazione capitalistico-liberista disavanzata, finiscono per essere assimilati al “resto del mondo” che non condivide lo sviluppismo di quel venti per cento di parte ricca che deruba il restante ottanta per cento povero, poverissimo.

È la divisone in due blocchi che è proprio ormai superata. Così come lo è la divisione del lavoro otto-novecentesca. La lotta di classe esiste nella misura in cui noi riusciamo a riconoscerla nelle grandi migrazioni, nel bisogno di libertà che è, anzitutto, bisogno reale, concreto, materiale. La giustizia sociale non può essere separata dal diritto civile, da quello umano e animale al tempo stesso.

La libertà di stampa e di espressione veniva, all’epoca della Guerra fredda, barattata con i diritti sociali. Oggi nemmeno più questo baratto è permesso. Oggi, governi come quello di Giorgia Meloni devastano il mondo del lavoro, della previdenza, del pubblico e dei princìpi egualitari della Costituzione su tutta la nazione senza fare cambio con nulla.

A tutto questo aggiungono l’occupazione della RAI, l’acquisizione di agenzie di informazione e si vanno lagnando – ovviamente – nelle televisioni principalmente della presupponenza della sinistra in ambito culturale. Su questo crinale non c’è storia che tenga: la cultura non è di destra perché la destra ha sempre tagliato con l’accetta i problemi sociali e non li hai analizzati fino in fondo.

La destra per natura è tranciante, icastica, priva di sfumature, marziale, rigidamente ancorata ad un linguaggio che nega in nuce la libertà di espressione, perché è comando, slogan, dirigismo a tutto tondo. O con loro o contro loro. Così imposta il governo Meloni il rapporto con la società, con il lavoro, con la scuola, con la cultura e il patrimonio del Paese.

Così tratta la libertà di stampa. Formalmente rispetta la Costituzione; informalmente non lascia un centimetro di spazio in più al dissenso o all’azione di una magistratura che indaga troppo e a cui si deve mettere il freno e la mordacchia.

Questa Italia del 2024 è ben più indietro dei tanti paesi africani, asiatici e latino-americani se si considera una classifica che, oltre alla libertà giornalistica contempli anche quella di manifestazione, di opposizione, di non accettazione delle direttive del governo, di declassamento del Parlamento a doppia camera di ratifica delle decisioni della maggioranza.

Basterebbero le intenzioni (che rischiano di non rimanere solamente tali) sulla controriforma del premierato e su quella della famigerata autonomia differenziata, per mostrare al mondo lo stato miserevole della nostra democrazia. Restano a difenderla il Presidente Mattarella, la Costituzione, una parte delle opposizioni e una parte del mondo sindacale.

Basterà per non finire al centonovantacinquesimo posto della classifica, l’ultimo (o quasi) tra tutti gli Stati del mondo?

MARCO SFERINI

7 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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