Meno partecipazione e più governo: la ricetta autocratica delle destre

Se non fosse che dietro c’è una precisa volontà disarticolatrice dei processi democratici di partecipazione, l’affermazione appena post-voto sull’abolizione dei ballottaggi e la modificazione della legge elettorale a favore...

Se non fosse che dietro c’è una precisa volontà disarticolatrice dei processi democratici di partecipazione, l’affermazione appena post-voto sull’abolizione dei ballottaggi e la modificazione della legge elettorale a favore di una destra che può vincere col 40% dei consensi e con meno del 50% dell’elettorato votante, sarebbe l’incipit per una nuova narrazione tutta farsesca della politica italiana.

Invece è tutto drammaticamente vero. Non è una scena teatrale, anche se vi somiglia molto, di antichissimi spettacoli romani, rievocanti chissà quale idea di italianità nazionalisticamente fatale sui colli dell’Urbe.

La tentazione è quella di attribuire a questa dichiarazione tempestiva, peraltro non smentita da Giorgia Meloni, un carattere di boutade, proprio per minimizzarne la portata e ridimensionare il furore destroide nella sconfitta sei a zero nei capoluoghi di regione.

Ma così come non vi è spirito farsesco, nemmeno vi si può rintracciare il tono dell’iperbolica esagerazione parolaia di chi, provenendo dalle fila del MSI era abituato a butarla in caciara ogni volta che c’era qualche problema evidente tra le fila del partito neofascista; per non parlare poi del successivo passaggio dalla parole alle botte, alle aggressioni cameratesche, all’intimidazione dell’avversario.

Oggi, questa destra che tenta la scalata ad una rispettabilità istituzionale che non potrà mai avere, proprio perché è altro dall’impianto costituzionale repubblicano, nonostante, per mandato popolare, grazie alla democrazia che ha sempre osteggiato, è andata a Palazzo Chigi dopo una trentennale opera di smantellamento dei cardini su cui si fondava la pregiudiziale antifascista.

Hanno collaborato, direttamente o indirettamente, a questo penoso risultato anche le forze della sinistra e del centro moderato nel nome di una ritrovata “concordia nazionale“.

La gara all’acapparamento dell’elettorato medio, di quel ceto che viene conteso un po’ da sempre nel punto gravitazionale intorno a cui si sono polarizzati gli schemi geopolitici dell’imperfetto bipolarismo italiano, si è prolungata oltre ogni misura accettabile e ha dato seguito ad una estremizzazione delle posizioni nel nome non della competizione democraticamente intesa, ma di una concorrenzialità esasperata da personalismi leaderistici e, quindi, da un sempre maggiore singolarismo del potere.

Non è un caso che la madre di tutte le riforme sia per Giorgia Meloni proprio quel premierato su cui punta tutta la partita della sua permanenza al governo oltre il quinquennio di legislatura presente.

E su cui, oltre modo, punta anche, quindi, una permeazione sempre maggiore tra rappresentanza politico-partitica e istituzionale, facendo della coalizione di destra una specie di moloch impenetrabile, indiscutibile, dato per scontato piuttosto che per eletto da una vera maggioranza dell’elettorato.

Le posizioni espresse dal Presidente del Senato rientrano perfettamente in questo perimetro di ristrutturazione non della democrazia repubblicana ma di uno Stato in cui al centro sia il potere esecutivo e tutto intorno ruotino gli altri apparati istituzionali, ridotti a ratificatori delle decisioni del governo.

Un fenomeno allarmante come quello della continua e costante disaffezione dei cittadini rispetto al voto, dovrebbe essere trattato con tutte le cautele del caso.

E, prima di tutto, del rispetto che si deve tanto alla delega popolare quanto alla partecipazione delle persone alla formazione della politica nazionale mediante il confronto civile e sociale e non per opposte tifoserie, create ad acta da un incancrenimento della dialettica tanto istituzionale quanto propriamente civica, causato ormai da decenni di irrisioni dei grandi ideali di un tempo, delle visioni (anche visionarie) che erano proprie di grandi passioni tanto a sinistra quanto a destra.

La necessità di stabilire l’alternanza di governo, sul modello americano, ha sedotto tanto la sinistra moderata facendola transitare dal timido tentativo socialdemocratico finito con i DS al Giano Bifronte veltronianamente chiamato PD; quanto la destra che, diversamente dal fronte progressista, non ha dovuto fare grandi operazioni di pulizia delle scorie del passato e, dopo il passaggio a Fiuggi, ha trovato nuova linfa per corroborarsi, per rinascere e darsi un tono istituzionale grazie al viatico berlusconiano.

Più o meno coeve a quelle di La Russa sono le dichiarazioni di Italo Bocchino, direttore editoriale de “Il Secolo d’Italia” (storica testata del MSI, oggi di Fratelli d’Italia), che, nella trasmissione “Accordi e disaccordi“, a confronto con Massimo Cacciari e altri, ha pensato di costruire la teoria della maggiore solidità democratica riconoscibile da parte dei cittadini proprio grazie al fatto che si va sempre meno a votare.

Una stravaganza pirotecnica mica male che, letteralmente suona così: «Chi non va a votare ha scelto di non andare a votare e l’ha fatto o perché non si sente rappresentato o perché sa che è ininfluente visto che la democrazia è solida».

Prendendo queste affermazioni per quello che sono, ossia ciò che il professor Cacciari ha sentenziato prima di abbandonare il collegamento con Luca Sommi e i suoi ospiti, se ne si pesa il vuoto pneumatico, si potrà riscontrare che la logica delle destre è comunque esattamente quella.

Meno partecipazione per loro significa maggiore agibilità nella disposizione di governo. Chi non si reca alle urne fa, quindi, una scelta che i postfascisti “rispettano” molto volentieri perché gli permette di qualificarsi come maggioranza, seppure di una minoranza sempre più ristretta di elettori votanti.

Poco importa (o meglio, importa ma è giusto non dare a vedere che sia così…) che Fratelli d’Italia perda mezzo milione di consensi nella tornata per le Europee.

Ciò che conta è quell’esibizione delle percentuali che dichiarano, sempre più ipocritamente e falsamente, che attorno al governo c’è una volontà dai tratti plebiscitari. Perché si fa riferimento soltanto a chi si reca alle urne, visto che chi non va al seggio viene derubricato come qualcuno che ha deciso di apprezzare la forza della democrazia che, nonostante tutto, si guardi un po (sic!), resiste e pretende pure di non cambiare con il premierato e con l’autonomia differenziata.

L’inadeguatezza istituzionale delle forze di destra è qualcosa di veramente imbarazzante e la si evince ogni giorno non solo dalle gaffes dei singoli ministri che non sanno di storia, di geografia, di astronomia (e di democrazia), ma anzitutto dai propositi meloniani e salviani, con il tacito assenso di un Tajani che ha non permettersi il lusso di rompere il consesso conservatore e reazionario.

Nello scambio vicendevole tra il regionalismo in salsa secessionista e i pieni poteri al Presidente del Consiglio volete forse che non trovi spazio l’abolizione del doppio turno nelle elezioni amministrative locali?

Quando vota meno del 50% dell’elettorato e il 40% dei voti validi va ad una coalizione o ad una lista, è sufficiente per poter chiamare tutto questo ancora con il nome di “democrazia“. Secondo La Russa, che di questa parola ha una concezione tutta propria, molto, troppo impenetrabile.

Non fa tutto questo forse il paio con lo svuotamento del ruolo del Parlamento della Repubblica, con il suo divenire progressivamente un bicameralismo artefatto, nominale più che sostanziale, tutto teso a dare la parvenza che un assemblearismo esista ancora e che, quindi, nessuno possa permettersi di dichiarare defunta la democrazia italiana?

Non siamo nel deperimento del regime democratico là dove a delle istituzioni che rispondono quasi esclusivamente all’esecutivo si associa un tasso di diseguaglianza sociale spaventoso?

La crisi economica non va distinta da quella politica. Sarebbe un grave errore ritenere impermeabile dalle conseguenze strutturali la sovrastruttura istituzionale. Ne parliamo in termini prettamente marxisti perché così è davvero più comprensibile l’interdipendenza tra i due fattori e la concomitanza che sovente assumono nelle ricadute che hanno sugli stili di mera sopravvivenza di decine di milioni di persone.

Incastonate in questo scenario tutt’altro che rasserenante, tanto per noi quanto per il più lato concetto di democrazia repubblicana, le parole del Presidente La Russa assumono un significato destro, dal retrogusto molto amaro di tempi in cui si caldeggiavano i pieni poteri, il minor coinvolgimento possibile della popolazione nelle scelte di politica tanto locale quanto nazionale.

L’ambizione conservatrice e reazionaria punta ad una democratura tutta italiana, ad uno scimmiottamento di quella magiara e, al contempo, al mantenimento delle buone relazioni con il contesto europeo.

Ne è prova l’atteggiamento che Fratelli d’Italia terrà al momento del voto sulla nuova “maggioranza Ursula” e sulla composizione della Commissione continentale. La Lega giura e stragiura che – e c’è da crederci – non voterà mai e poi mai von der Leyen. Il partito di Salvini tenta così una distinzione ulteriore con la destra meloniana, pur nella salda compagine di governo. Differente ancoa la posizione più liberal-europeista e popolare di Forza Italia.

Un gioco tattico che risponde comunque ad idee (e ad ideologie) piuttosto chiare ormai e che, nel nome del governismo a tutti i costi, trovano sempre una convergenza quando si tratta di sedere a Palazzo Chigi ed impedire a qualunque progressismo, anche timidamente moderato, di arrivarvi. Si tratta del loro mestiere e lo fanno drammaticamente bene. L’imbarazzo per la gioventù che inneggia a Mussolini e ad Hitler dura l'”espace d’un matin“.

Il giochetto dei vizi privati e delle pubbliche virtù si riprende la scena ogni volta che deve tenere insieme pulsioni di pancia e voglia di potere, di gestione di interessi in cui prima o poi qualcuno inciampa. Bisogna adoperarsi per invertire questa rotta, per arrivare alla formazione di un vasto fronte di salvezza costituzionale ed istituzionale. Un complesso di forze politiche, sindacali, sociali, civili e culturali che mostrino l’altro volto dell’Italia del 2024.

Un volto di cambiamento affidato alla congiunzione tra diritti sociali e civili, tra diritti singolari ed universali. Un volto repubblicano, laico, democratico, antifascista e, se possibile, magari anche antiliberista. Su queste basi la sinistra francese riesce a trovare una quadra al momento della presentazione di sé stessa all’elettorato. Quella italiana, per le ragioni già ampiamente scritte, no.

Siamo quindi sempre davanti ad un problema di interscambiabilità delle culture in favore di una costruzione politica che guardi anzitutto al sociale e che si metta nella condizione di essere davvero utile al Paese: cacciando queste destre dal governo e, dopo, governando ma senza più le tentazioni compromissiorie e interclassiste, l’anteposizione del privato al pubblico e la degradazione del mondo del lavoro a variabile dipendente di quello imprenditoriale.

Se il PD e i Cinquestelle sono disposti a rappresentare una vera formazione progressista che si faccia carico di posizioni anche moderate ma nettamente antitetiche a quelle del centro e della destra, allora anche la sinistra di alternativa e comunista può partecipare ad un progetto di governo davvero innovativo e rinnovativo.

Le condizioni, però, devono essere chiare e nette: prima il lavoro e non il profitto, prima la pace e niente più armi e guerra, prima i il pubblico e, come recita la nostra Costituzione, poi il privato che si adegua alle esigenze sociali. Senza queste premesse nessuna coesione è francamente immaginabile.

Il prezzo da pagare è la continuazione dell’esperienza meloniana a Palazzo Chigi e nei gangli più reconditi delle tante amministrazioni italiane. Giustizia sociale e libertà nella Repubblica devono e possono convivere e dare corso ad una nuova stagione moderna dei diritti ed anche dei doveri dei cittadini.

MARCO SFERINI

27 giugno 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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