L’eternità della materia nel dibattito tedesco di metà Ottocento

Dopo le rivoluzioni del 1848 in Europa, nello specifico in Germania si va affermando un filone culturale, filosofico-scientifico ed anche politico-sociale che, poi sull’onda crescente degli studi darwinisti, accrescerà...

Dopo le rivoluzioni del 1848 in Europa, nello specifico in Germania si va affermando un filone culturale, filosofico-scientifico ed anche politico-sociale che, poi sull’onda crescente degli studi darwinisti, accrescerà la propria consistenza e la qualità dei pensieri che andrà esprimendo. Non c’è ombra di dubbio alcuno sul fatto che i postumi delle grandi lotte tra Chiesa e Impero si fecero sentire anche dopo la scomparsa del secondo ma senza che la prima, divisa ormai tra il nord protestante e il sud cattolico, potesse rivendicare una qualche unità d’azione contro le spinte materialiste che si facevano sempre più sopravanzanti.

Il tema della laicità dello Stato, infatti, è uno, eppure non trascurabile, degli elementi di cui si fanno portatrici le sommosse quarantottine, i moti liberali che attraversano gli Stati italiani, la Francia ed echeggiano fino nella lontana Prussia. In quei decenni la Germania passa da una economia prevalentemente agricola ad una industrializzazione piuttosto accelerata nella sua evoluzione pressoché continentale. Del 1834 è l’unione doganale che inizia a gettare le precondizioni per una futura unità tedesca.

L’importanza, quindi, dell’elemento oggettivo, materiale, concreto e tangibile nella vita di tutti i giorni se non surclassa, quanto meno contende alla spiritualità il carattere di punto di partenza di una egemonia anche culturale: tanto a partire dalle classi sociali più agiate fino ad arrivare al proletariato urbano e alle genti di campagna di cui la Germania è ricca. In un complice rapporto di vicendevolezza, conoscenza, scienza e sviluppo industriale danno la spinta diretta a volte, altre volte meno, ad una lotta intellettuale sul rapporto tra fede e ragione, tra teleologia creazionista e neo-empirismo.

La finalizzazione deterministica dell’esistente è, quindi, uno dei più affascinanti capitoli scritti in questa fase di capovolgimento delle opinioni tanto dei circoli intellettuali e delle università, quanto della vulgata spicciola che inizia a comprendere la portata della rivoluzione industriale che si trasferisce dai suoi settecenteschi inizi al ben più complesso secolo nuovo. Il materialismo tedesco della prima mettà dell’Ottocento è, pertanto, un insieme di opinioni scientifiche che, senza particolari criticità, assume una connotazione prettamente filosofica nel momento in cui diviene diatriba accademica.

Su cosa si combattono le diverse opinioni dei materialisti teutonici? Anzitutto sulla coesistenza tra le visioni assolutamente più tradizionali dell’esistente, dell'”essere” parmenideo, che riportano al creazionismo di matrice religiosa, al dogmatismo cattolico, all’intransigenza clericale e, di contro, al progresso in campo scientico. Questa seconda caratteristica dell’evoluzione intellettiva applicata al reale, dimostrante le sue asserzioni e i suoi studi nella oggettività degli esperimenti di laboratorio, è c’ò che maggiormente affascina i giovani intellettuali materialisti.

Biologia, fisiologia, ma anche fisica, medicina e astrologia: in ogni campo del sapere si cerca, da un lato come fece Friedrich Albert Liebig un legame tra scienza e fede, tra conocenza immanente e spiritualità trascendente; dall’altro si sostiene, come provarono a farlo Jakob Moleschott e Ludwig Büchner, l’autosufficienza di una naturalità delle cose che si producono, riproducono e continuano incessamente ad esistere prescindendo da qualunque legame con il divino, con qualcosa di più del semplice concetto di “ultraterreno” e che potremmo definire più compiutamente come “ultramateriale“.

In qualche intervista televisiva reperibile facilmente sulla rete, la professoressa Margherita Hack, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Trieste, indubbiamente una materialista atea che non sarebbe piaciuta per niente al nostro Liebig, si faceva domande molto elementari e, tuttavia, imprescindibili per provare a partire da una condizione di consapevolezza della finitezza della ricerca scientifica che, provando e riprovando, risolve magari un dubbio, dimostra un teorema, spiega una legge comportamentale della materia, ma non può arrivare a spiegare l’esistente.

Quindi, il dibattito un po’ goffo del materialismo tedesco della prima metà dell’Ottocento, cui anche Engels riserva alcuni rimproveri di svuotamento della stessa sfera filosofica con una sterilità ingenue di domande irrisolvibili, alla fine trova la sua sostanziazione nella netta contrapposizione tra il provare a recuperare un senso al Cristianesimo e alle credenze religiose nonostante la sempre più concreta dimostrazione dell’eternità della materia (tanto incorporea quanto corporea e nelle trasformazioni dell’una nell’altra) e, di contro, l’escludere che qualunque elemento religioso e fideistico abbia un ruolo proprio nella scoperta dell’autonomia esistenziale dell’esistente stesso.

Il problema della cosidetta “generazione spontanea” di ciò che è, compresi noi stessi che ci trasformiamo in altro dopo la morte, farà interrogare filosofi come Carl Vogt e, nonostante non si possa arrivare a risolvere la problematica del perché esistano proprio queste leggi fisiche, queste involuzioni ed evoluzioni (così considerate dalla nostra interpretazione intellettiva tutta umana) dell’interità universale, permetterà loro di constatare che, prescidendo dalla metafisica, si può raggiungere un buon livello di spiegazione dell’autoconservazione della materia e delle mutazioni naturali.

L’estremizzazione, nemmeno poi tanto spinta, del materialismo tedesco tradotto nell’indagina scientifica (e viceversa) da Moleschott e Büchner, fa ulteriori passi avanti rispetto alle “Lettere fisiologiche” pubblicate nel 1845, da cui si trae il primo degli spunti per una teorizzazione del pensiero come materia dell’organismo, facendo delle attività psichiche delle funzioni del cervello e non qualcosa di immateriale che abita lo stesso e che ci pervade quasi prescindendo dalla fisicità del nostro corpo. Si arriva al punto più verticistico del fisicalismo: «…per esprimersi in modo alquanto grossolano… i pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato o dell’urina rispetto ai reni».

La gerontocratica baronale universitaria di allora non può che, in ossequio alla commistione tra Stato e Chiesa, respingere una simile, rivoluzionaria affermazione della totale materialità dell’esistenza di noi medesimi nell’esistente più generalmente inteso. Gli avversari del materialismo tedesco quindi si moltiplicano e alcune pubblicazioni, come “La circolazione della vita. Risposte fisiologiche alle lettere sulla chimica di Liebig“, vengono proibite tanto in Baviera quanto in Austria. Nemmeno a dirlo, nelle regioni e negli Stati cattolici del mondo tedesco.

Ma la fisiologia di nuova interpretazione materialista oltrepassa i confini della Confederazione germanica prima e quelli dell’Impero tedesco poi: Moleschott arriva in Italia, nel giovane regno appena costituitosi, e insegna prima a Torino e poi a Roma. Nel mentre lo fa, approfondisce i suoi studi e si rende conto di avere una grande affinità con quello che considererà il suo maestro per eccellenza: Ludwig Feuerbach. Sarà proprio quest’ultimo ad ispirare il giovane professore in esilio esponendo per iscritto una critica molto benevola nei confronti di uno studio sull’alimentazione e sul suo rapporto con l’emancipazione umana.

Ne nascerà la famosa frase: «L’uomo è ciò che mangia». Il che poteva essere interpretabile in molti modi, soprattutto non conoscendo le premesse del pensiero fisiologico di allora, le sperimentazioni di una convivenza sempre più complessa tra scienza e filosofia, nonché – ovviamente – tra queste due discipline e l’assoluta immaterialità della fede e dei suoi derivati teleologici. Ma, alla fine, il fulcro della questione, la domanda delle domande è sempre e soltanto sulla “circolazione della vita” che rimane strettamente vincolata, legata, abbarbicata allo studio dei comportamenti della materia.

La natura viene declinata così come una delle manifestazioni armoniche di una esistenza del tutto che può assumere innumerevoli connotazioni e obbedire a leggi la cui produzione e riproduzione incessante, sempre uguale o simile a sé stesse, denota che ciò che c’è e si trasforma lo fa seguendo dei percorsi chimici alla cui origine prima è impossibile arrivare. Si può spiegare perché il movimento atomistico, si può constatare, senza particolari doti di preveggenza, come si comporterà il seme di una pianta collocato nel terreno; ma non si può spiegare perché in quel seme vi sia quell’essenza, quella caratteristica, quella “natura” propria.

La vita diviene, per i materialisti tedeschi, un insieme di proprietà naturali della materia che resistono alla distruzione totale e che, quindi, continuano, se non a vivere, almeno ad esistere in un processo continuo di mutamenti cosmici. Scrive Moleschott: «La distruzione serve di base alla costruzione; dunque il movimento non sarà interrotto; è la garanzia della vita». Qui si può provare ad evidenziare una sorta di celebrazione della fine dell’individualità degli esseri viventi e delle cose come il principio dato da una morte che laicamente si fa sacra perché è la necessaria evoluzione degli elementi.

In particolare si ritrova in Büchner, i cui scritti sono facilmente leggibili – per espressa volontà espositiva del giovane medico tedesco – e comprensibili da un vasto pubblico anche privo delle nozioni più elementari di fisiologia (e di filosofia), la considerazione delle caratteristiche della materia che la rendono mutevole ma indistruttibile. Tra queste vi sarebbe la forza. Nulla di accomunabile all’idea di energeticamente compenetrante tutto l’Universo come fantasiosamente fantasticato nella saga di “Star Wars“, ma tuttavia molto assonante. Per Büchner, infatti, forza e materia sono ineluttabilmente presenti a sé stesse e in sé stesse.

Questa inscindibilità tenderebbe ad escludere la forza come moto creatore della materia, essendo già insita in essa. Non demorde il materialismo ottocentesco tedesco dal proclamare il compito che oggi deve porsi la modernità scientifica: studiare imparzialmente, senza influenze religiose prima di tutto, la natura basandosi sulla classicità empiristica e su una storia del pensiero filosofico che ne supporti, con le tante ipotesi fatte, la generazione costante del dubbio come punto di partenza della conoscenza ulteriore.

L’eternità dell’esistente quindi prescinde da tutto il resto: verrebbe da dire, almeno oggi, anche dalla teoria del Big Bang, ossia dall’immaginare che, ad un certo micro-istante, si sia creato lo spazio-tempo in un qualcosa che già era comunque pre-esistente. Altrimenti dove si sarebbe espansa la materia? Dove avrebbe potuto prendere scena la meravigliosa evoluzione ipergalattica in decine di miliardi di anni se non in un ambiente, in un vuoto già presente? Ne conseguirebbe, secondo i materialisti tedeschi, che la materia è di per sé indistruttibile. Non può, quindi, sparire nel nulla.

Se il tutto viene considerato su un piano meramente ipotetico per quanto riguarda almeno l’inconoscibile origine dell’Universo, quanto meno si può stabilire una certa coerente connessione tra l’eternità della materia e la sua continua trasfromazione: noi siamo – diceva Margherita Hack – proprio “figli delle stelle“, perché della loro sostanza siamo fatti in quanto nasciamo su un pianeta che si è formato grazie alla separazione per scontro tra altri corpi celesti e ha preso la forma che ha da miliardi di anni grazie alla vorticosa, per noi impercettibile, rotazione attorno alla stella solare.

Per quanto si pensi, si scriva e ci si scervelli, non si può dedurre nemmeno lontanamente il perché l’Universo, la materia, l’esistente si comporti come si comporta ogni giorno: tutto risponde ad una consequenzialità oggettiva, ad un meccanicismo di rapporti tra cause ed effetti, tra osservato ed osservatore che dà ragione ai materialisti germanici. Esiste una immortalità e una universalità delle leggi di natura. Se un fiore muore, un altro fiore, simile al primo, nasce, cresce e poi muore nel medesimo modo. Si può parlare di una fenomenologia della natura proprio in questo senso.

L’osservazione di ciò che avviene può essere premessa dell’interpretazione dell’oggettivo, ma pur sempre oggettivo ed evidente rimane, perché constatabile dalla nostra mente autocosciente. Noi, a differenza – forse (perché è molto difficile sapere cosa e come pensa un animale non umano)  – degli altri esseri viventi, siamo in grado di domandarci il perché esistano queste leggi naturali. Perché non ne esistano altre… Sono le stesse domande che si poneva Margherita Hack e a cui, ammetteva, la scienza non sa rispondere.

Per Ludwig Büchner la materia, la forza e le leggi naturali sono la prova dell’autonomia della natura in quanto tale e della inefficacia di qualunque ipotesi di intervento divino in merito alla regolazione degli stessi fenomeni naturali. Se ne conclude – si fa per dire – che la visione evoluzionistica ne esce rafforzata e che il materialismo stesso diventa una minaccia seria per le credenze che l’essere umano ha messo a guardia di una coscienza laica, di una pacifica accettazione dell’insensatezza esistenziale qualora si cerchi un senso al tutto.

Stimolante è il dibattito che prende corpo tra Liebig e Büchner sull’essenza e sul ruolo del pensiero, perché ci dice della dinamicità dialettica che ci abita e che è insoppribimile, proprio perché non si arriverà mai alla completa conoscenza dell’essere: il mistero rimarrà e sarà la fascinazione che ammanterà per sempre il dilemma. Almeno fino a quando l’umanità non si sarà autodistrutta seguendo le scelte di un capitalismo che, se visto con la sterile, un po’ astiosa ed acida punta di saccenza dei materialisti, altro non è se non una naturale trasformazione della materia stessa.

Ma qui sorge un altro elemento di contraddizione tra pensiero e pensato, ragione e scienza, sentimento immateriale e realtà materiale: l’etica, la morale, il sapere ancestrale secondo cui distinguamo ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che non lo è. Se non possiamo modificare le leggi di natura, possiamo almeno, però, provare a vivere nel migliore dei modi e dei mondi possibili. Oppure vogliamo dire che anche questo dipende dalla volontà divina?

MARCO SFERINI

8 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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